Come dev'essere succedere a un padre
che si è coperto di gloria? Da
Alessandro il Macedone in
poi, diverse sono state le risposte e, nel suo piccolo, anche
il Ducato di Savoia ha detto la sua. Prendete
Carlo Emanuele I,
succeduto al padre
Emanuele Filiberto, rifondatore del Ducato di
Savoia. Copertosi di
gloria a San Quintino, riconquistato il suo Ducato, Emanuele
Filiberto passò gli ultimi decenni della sua vita a
riformare lo
Stato: esercito, istruzione, giustizia, campagne, fisco, persino la
nuova capitale. Non c'è
praticamente settore del funzionamento di un Paese che Emanuele
Filiberto non abbia riformato. Alla sua morte, nel 1580, lasciò il
Ducato di Savoia in
condizioni migliori di quelle in cui lo aveva
trovato.
Esattamente il
contrario di quello che è successo a suo
figlio Carlo Emanuele I, che ereditò uno Stato solido e relativamente
prospero e lo lasciò
fragile e instabile, diretto, per di più,
verso
le deboli Reggenze delle due Madame Reali. Carlo Emanuele
nacque
nel 1562 nel Castello di Rivoli; nessuno si aspettava la sua
nascita, data l'età relativamente avanzata di sua madre
Margherita,
che lo ebbe a 39 anni, ma, figlio unico, fu amatissimo da entrambi i
genitori. Margherita trasferiva su di lui tutto l'affetto che non
poteva vivere nella sua vita coniugale, Emanuele Filiberto vedeva in
lui
la continuità dinastica. Così, se fino alla morte della madre,
nel 1574, fu molto coccolato, dopo, affidato alle cure paterne, fu
educato come l'erede di un
guerriero, con molto sport e molti
esercizi d'armi. Morto anche Emanuele Filiberto, nel 1580, Carlo
Emanuele si trovò Duca di Savoia
a soli 19 anni. Pochi anni dopo,
nel 1585, sposò l'Infanta Catalina di Spagna, figlia di re Felipe
II.
Impetuoso e appassionato, fece di tutto per farla sentire come a
casa e per lei fece costruire
lo sfortunato Castello di Mirafiori, di
cui oggi rimane solo la memoria; insieme ebbero nove figli e quando
lei morì, di parto, lui tardò tre decenni a sposarsi nuovamente.
Chiaro, nonostante il pubblico affetto per la moglie e la lunga
vedovanza, riuscì a mettere al mondo altri 11 figli illegittimi.
Carlo Emanuele amava far
sentire a proprio agio le giovani
duchesse appena arrivate a Torino: quando suo figlio Vittorio Amedeo
sposò la giovanissima principessa Cristina di Francia, la accolse a
Torino con
grandi scenografie e archi di trionfo, feste e balli,
nonostante la capitale fosse un grande cantiere, per il suo
primo
ampliamento. L'ampliamento di Torino, ancora chiusa nelle sue mura
romane, sebbene capitale di uno Stato ambizioso, era già
nei progetti di Emanuele Filiberto. E, una volta completata la
Cittadella che avrebbe dovuto difenderla, Carlo Emanuele seguì il
sogno del padre, iniziando l'ampliamento verso sud, con una
via Nuova
che si allargava in una piazza chiusa di gusto francese, l'attuale
piazza San Carlo, per poi proseguire fino alla
Porta Nuova. La Torino
che lui aveva in mente era
elegante e sfarzosa come una capitale
europea e doveva esaltare
il potere assoluto dei sovrani con
quell'
architettura omogenea che poi avrebbe caratterizzato per secoli il centro
cittadino (e a cui l'occhio di noi torinesi è così abituato da
rimanere 'choccato' in altre capitali, prive della coerenza
architettonica di Torino).
Seguendo le intuizioni del padre, il
giovane duca iniziò a interessarsi
agli affari italiani e ad avere
mire conquista che rendessero il suo territorio omogeneo: il
Marchesato di Saluzzo e il
Marchesato del Monferrato furono i suoi
primi obiettivi e per conquistarli si barcamenò tra sentenze
imperiali che gli permettevano di vantare diritti, equilibri delicati
con le superpotenze dell'epoca, guidate da zii, suoceri o cugini, e
guerre, come sempre. Tentò di
conquistare Genova e di intromettersi
nella
successione del Ducato di Mantova, e arrivò anche a pretendere
il trono di Francia, essendo figlio di Margherita di Valois; la sua
ambizione territoriale era tale che Cibrario scrisse, con un certo
sarcasmo, "credo che aspirasse anche al Papato, sebbene i suoi
costumi fossero alquanto corrotti". Fatto sta che le molteplici
guerre in cui si trovò coinvolto, i continui cambi di alleanza tra
Francia e Spagna e la sostanziale inaffidabilità, legata alle
convenienze del momento, lo resero
inviso anche ai principi italiani
e terminò diplomaticamente isolato da tutti. Morì il 26 luglio 1630
nel Palazzo Cravetta di Savigliano (CN), che si trovava in via
Gerusalemme; curiosamente, una profezia di Nostradamus gli aveva vaticinato la morte a
Gerusalemme e lui si tenne sempre lontano dalla città. Lasciò il
ducato
in rovina, ancora una volta invaso dai francesi e indebolito,
ma il suo regno non passò invano.
Mi piace un
bilancio dei suoi
anni di governo, letto su
Il conte Alessandro Tassoni e il Seicento: "Suo padre si era dedicato con
successo alla politica estera ed all'acquisizione di terre, lui fu
più abile nella trasformazione e defeudalizzazione del ducato. Sul
modello spagnolo fece una vita molto dispendiosa, si fece prestar
soldi perfino dai suoi camerieri. (Va detto, però, che prestargli
soldi era molto conveniente…) Promosse il restauro del palazzo
ducale e del castello degli Acaja (Palazzo Madama) ad opera del
Vitozzi e del Castellamonte, e la corte si riempì di artisti:
pittori, poeti, intellettuali… Tutti avevano il compito di
decantare la magnificenza dei Savoia (e guai se facevano altro).
Torino divenne una capitale sfarzosa, sede di feste memorabili e si
arricchì di splendidi edifici: le ville del Valentino e della Regina
e e la raggia di Mirafiori, la 'vigna' del cardinal Maurizio,
in collina. I castelli dinastici (Racconigi, Rivoli, Giaveno...)
divennero sfarzose residenze estive".
La
morte di Carlo
Emanuele I non colpì solo il Ducato di Savoia, per il quale si
apriva una pagina complicata, di nuovo alla ricerca di un equilibrio
impossibile tra Francia e Spagna. Colpì anche l'Italia e i suoi
principi. A ispirarmi questo post è stato questo terribile sonetto,
trovato sul web:
In morte di Carlo Emanuele
Odi e respira, Italia; alfin sotterra
Carlo, il rege dell'Alpi, estinto già
Spegni, Bellona, ornai spegni la face
E il tempio a noi fatai, Giano,
riserra.
Cadde, e dal freddo marmo ove si sei
Chiama ancor Marte e fuga ancor la
pace;
E vivo e morto, indomito ed audace
Ancor muove tumulti, ancor fa guerra.
All'armi, all'ira, alla vendetta
accinto
Franchi, Italici, Iberi ognor offese.
Non mai contento vincitore o vinto.
Godè tra il ferro e si nutrì di
risse:
Alfin qui giace in poca fossa estinto,
Misero in questo sol, che troppi visse.
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