Nel rapporto Stato-Chiesa, il Ducato di
Savoia prima, e il Regno di Sardegna poi, è sempre stato più libero
di altri. Forse, chissà, la laicità di Torino, città che
rispetta le religioni, ma non se ne fa ambasciatrice, arriva anche da
quell'eredità, iniziata probabilmente con le relative libertà lasciate da Emanuele Filiberto ai Valdesi nei confini delle loro valli.
Quasi tre secoli dopo, nel 1850, Vittorio
Emanuele II fu il re che firmò le leggi Siccardi, primo passo nella
separazione tra Stato e Chiesa, che avrebbe portato poi a quel "libera Chiesa in
libero Stato" con cui Camillo Benso di Cavour promise garanzie al Papa nella Roma
capitale del nuovo Regno d'Italia. Le nuove leggi si basavano sullo Statuto
Albertino, concesso nel 1848 dal padre di Vittorio Emanuele, re Carlo
Alberto, che affermava l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, mettendo le basi del primo Stato liberale
italiano.
Le leggi Siccardi portano il cognome del Ministro
Giuseppe Siccardi, Ministro della Giustizia del governo di Massimo
d'Azeglio Tra le riforme introdotte, l'abolizione di alcuni privilegi della Chiesa: il foro
ecclesiastico, ovvero il tribunale che aveva il diritto di giudicare
gli uomini di Chiesa per qualunque reato, compresi quelli di sangue,
sottraendoli alla giustizia civile, il diritto di asilo nelle
chiese, nei conventi e nei monasteri, che sottraeva alla giustizia
civile i delinquenti che si rifugiavano in questi luoghi religiosi,
l'esclusione dalla tassazione del patrimonio immobiliare degli enti
ecclesiastici. Non fu una passeggiata: su
www.museotorino.it, una bella
descrizione della battaglia che l'approvazione della legge
rappresentò: "(...) provocò l'immediata protesta
dell'arcivescovo di Torino, monsignor Luigi Fransoni,
che non mancò di fomentare la Chiesa invitando i parroci a sottrarsi
al decreto. Il Governo provvide a comminare al presule una multa di
500 lire e a citarlo in tribunale, dove venne condannato ad un mese
di carcere. Mentre i giornali cattolici promuovevano una
sottoscrizione per un pastorale d'argento da regalare al 'detenuto'
porporato, i giornali liberali controbattevano per un ricordo al
conte Siccardi. Le oblazioni per il ministro furono talmente tante da
permettere l'erezione di un monumento in piazza Paesana (oggi Savoia)
sede del
marcà dle pate (mercato dei robivecchi)".
L'obelisco,
firmato dallo scultore Luigi Quarenghi di Casalmaggiore è ancora lì,
curioso monumento torinese di sapore egizio, senza alcun legame
né con gli obelischi romani, portati nella
Caput Mundi dall'ammirato
Egitto, né con il Museo Egizio. È il ricordo
perenne di un passo fondamentale verso la laicità dello Stato, voluta
dal Regno di Sardegna per garantire l'uguaglianza dei cittadini
davanti alla legge ed estesa poi a tutti i territori mano a mano
annessi durante il Risorgimento, fino al Regno d'Italia. Nella base
dell'obelisco, insieme alla prima pietra, il 17 giugno 1852, furono
posti "i numeri 141 e 142 della
Gazzetta del Popolo, una copia
della legge Siccardi, monete, semi di riso, grissini e una bottiglia
di Barbera".
Negli anni successivi furono approvate altre
leggi che approfondivano la separazione tra Stato e Chiesa, tanto da provocare la
scomunica dello stesso Vittorio Emanuele II, non sempre così
d'accordo con le scelte "rivoluzionarie" del suo Presidente
del Consiglio dei Ministri. Ma di che stoffa fosse fatto il
re
gentiluomo fu chiaro il giorno in cui pose la firma sulla Legge
Siccardi. All'allora presidente Massimo d'Azeglio disse: "Mi
i firmo, ma i suma antèis che a l'Infern a-i va chiel !" ("Io
firmo, ma siamo intesi che all'Inferno ci va lei !"). Aveva
inteso il suo ruolo di Capo dello Stato meglio di alcuni sovrani
dell'età contemporanea, che posti anche loro di fronte alla scelta
tra le proprie convinzioni personali e le decisioni del Governo,
hanno scelto le prime: Baldovino dei Belgi si autosospese per
un giorno dalle sue funzioni, pur di non firmare la legge
sull'aborto; Henri del Lussemburgo ha accettato che lui e i suoi
successori fossero privati del diritto di sanzionare le leggi, pur di
non firmare la legge sull'eutanasia. Vittorio Emanuele II aveva
inteso che il Parlamento rappresentava un potere al quale lo stesso
sovrano doveva inchinarsi. Era già il re dell'Italia che stava arrivando.
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