Gli amori di Bernardo e Benedetta, la
crisi di Anna e Vittorio, l'emancipazione di Teresa, il sogno
industriale di Vittorio e Salvatore. Sì, Questo nostro amore 70 ha
tutti gli ingredienti di un grande feuilleton italiano, con cui
appassionare il pubblico televisivo. Ma, da torinese, che vede la
propria città apparire in tante inquadrature, mi sento sedotta
soprattutto da Torino. Chiaro, anch'io voglio sapere come finirà tra
Bernardo e Benedetta, so che Anna e Vittorio risolveranno le loro
divergenze e immagino
che Vittorio e Salvatore riusciranno ad avere una delle tante piccole
imprese dell'indotto automobilistico. Però, più guardo questa
fiction e più riconosco Torino, mi innamoro di lei, dei cambiamenti
che proprio in quegli anni ha fatto, della nuova identità che ha
saputo darsi e a cui appartengo.
Mi divertono i salti mortali
delle riprese dal Monte dei Cappuccini e dalla collina, per non
inquadrare il costruendo grattacielo di Intesa San Paolo (ma non
sfuggono le torri di Spina 3, dietro la cupola della Sindone!), sono
indulgente sulle libertà prese sulla geografia cittadina, per cui si
esce da un cortile e si finisce in una via in pieno centro, che è
invece distante, controllo rigorosamente se sono rispettate certe
immagini cittadine degli anni 70 (ed è stato tenero vedere sì il
passaggio delle auto in piazza San Carlo, com'era negli anni 70, ma sull'acciottolato
realizzato all'inizio di questo secolo, quando la piazza è diventata pedonale). Ho pochi ricordi
della Torino degli anni 70. Ma mi ricordo quando la facciata di
Palazzo Reale era gialla (e nelle riprese in collina di Questo nostro
amore 70 risulta bianca, come adesso!), quando la piazzetta Reale era
un parcheggio controllato dall'ACI, che faceva infuriare mio padre,
perché non si trovava mai posto e "mai più in centro con la
macchina"; quando piazza Castello era un caos di auto, che giravano
intorno a Palazzo Madama, come se fosse un'isola; quando via Garibaldi non era pedonale, era la via degli abiti da sposa e c'erano i negozi di guanti e cappellini: si andava in
centro una volta ogni tanto e ci si vestiva bene ed era una festa,
perché si prendeva il pullman o il tram; quando le mamme avevano come principale occupazione la cura dei figli e della casa e si dannavano le giornate accompagnandoli a scuola, in piscina, alle lezioni di danza o di musica e non avevano mai tempo per se stesse perché neanche si usava; quando si andava in vacanza in Liguria, l'autostrada Torino-Savona era a doppia corsia alternata e i figli degli operai della Fiat andavano in colonia; quando nella periferia settentrionale della città nascevano intere vie di case in cooperativa, costruite da piccoli professionisti, impiegati e operai che si associavano. Mi ricordo, in classe, le
compagne arrivate da altre regioni, con i loro accenti diversi, i
loro sorrisi ritrosi, la timidezza di chi sta scoprendo nuovi mondi.
A me sarebbe toccato il passaggio inverso poco dopo, dal Piemonte al
Molise: ma loro erano le meridionali, faticavano a farsi accettare,
portandosi dietro tutte le diffidenze che la grande immigrazione
aveva scatenato a Torino; io ero la settentrionale, ero guardata con
stupore e ammirazione, da chi identificava il Nord con il progresso e
il benessere (ed è stato lì, a Campobasso, che ho avuto un compagno di
scuola che era come un piccolo Lorenzo: i suoi genitori erano emigrati in
Svizzera e lui era cresciuto dagli zii, perché la Svizzera non
voleva i bambini italiani). Stereotipi dell'Italia che stava
imparando a conoscersi proprio in quegli anni, grazie all'emigrazione
interna, nonostante fosse tornata a essere un solo Paese da un
secolo.
Mi ricordo quando nel cortile dei nonni, arrivavano bambini di altre regioni; era un cortile in cui
tanti venivano identificati con le loro regioni di provenienza, c'era la
veneta, c'erano gli istriani, c'erano i pugliesi e i napoletani,
Torino era un crogiolo di genti già da tempo; poi, proprio in quegli
anni arrivò una famiglia di siciliani, erano tanti, erano chiassosi,
erano esuberanti, erano siculi. Noi dovevamo stare attenti a loro,
loro dovevano stare attenti a noi, in questa diffidenza che gli
adulti cercavano di trasmettere e poi bastava il pallone e la cronaca
inventata di qualche partita a buttare giù. Però c'è voluta l'età
adulta per dare a siculi un'accezione affettuosa e scherzosa e per
scoprire tutto quello che l'Italia deve alla Sicilia in termini di
cultura, arte, storia.
Riconosco quella Torino nei Costa e negli
Strano, negli amori di Benedetta e Bernardo: non erano solo
differenze sociali, erano anche differenze geografiche e culturali, che potevano incontrarsi solo nei compromessi da cui sarebbe nata un'altra città.
Riconosco in Teresa tante donne meridionali, che hanno saputo trovare
una propria identità, al di là del ruolo familiare, proprio nel
contatto con la grande città e con il Nord. La grande emigrazione interna è stata uno sconvolgimento per tutti, per i meridionali che
si trovavano a vivere in un'altra terra e faticavano a mantenere la
propria identità, per i torinesi che si vedevano 'derubati' della
propria città e del proprio stile di vita: mettere insieme la
riservata sobrietà torinese e la colorata esuberanza meridionale è
costato tempo, è costato disorientamenti, intolleranze e molta
comprensione reciproca. L'ho vissuto, da bambina, senza rendermene conto, me lo racconta una fiction di buon sentimenti.
Guardo Questo nostro amore 70, amo come i
profondi cambiamenti affrontati dalla città siano raccontati con
affetto e con rispetto, mi piace come Torino sia la grande
coprotagonista della serie, anche se non si dice mai esplicitamente,
rispettando quell'undestatement che non è andato perduto nella nuova
identità. E penso che Torino e l'Italia siano nate in fondo allora, grazie alle fatiche e
agli sforzi, agli amori e alle rivendicazioni di chi ha saputo
mescolare storie e geni, queste nostre molteplici culture in cerca di sintesi. La
riunificazione dell'Italia ha visto Torino protagonista, nel XIX
secolo, ma l'Italia è nata davvero negli anni 60 del XX secolo, con
le grandi emigrazioni, che hanno avuto ancora una volta in Torino uno dei principali punti di riferimento. Oggi i nuovi torinesi, nati da allora in poi, amano dire che non sei
davvero torinese se non hai nelle vene anche un po' di sangue
meridionale.
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