Il boia di Torino abitava nella contrada dei Fornelletti, al
numero 2 dell'attuale via Bonelli; nel XV, a poca distanza si trovava
il patibolo per i condannati a morte. Il mestiere del boia era
comprensibilmente uno dei più disprezzati dalla società. A Torino,
il boia, che, come tutti i dipendenti civili e militari dello Stato
era obbligato ad assistere alle cerimonie religiose, aveva un banco a
parte, nella chiesa di Sant'Agostino; e a parte veniva seppellito,
nella stessa chiesa di Sant'Agostino, sotto il campanile.
L'ostracismo lo colpiva in buona parte della sua vita pubblica.
Una
delle leggende vuole che la moglie dell'ultimo boia sabaudo, Pietro
Pantoni, avesse così tanta vergogna che non osasse neanche uscire di
casa e passasse il proprio tempo a pulire la casa, diventata, ovviamente, la più pulita di Torino. E la più famosa di tutte le leggende riguarda la nascita del
pan carrè. Dobbiamo risalire fino al Medio Evo, quando il boia aveva
serie difficoltà a comprare il pane, perché i panettieri pensavano
portasse sfortuna servirlo. Dovette intervenire il duca Amedeo VIII
di Savoia, a ordinare ai panettieri di servire anche il boia perché "o lo accettate come cliente o diventerete suoi clienti!" Così,
obbligati a vendergli il pane, i panettieri si 'vendicarono'
servendoglielo al contrario, in segno di disprezzo. Ci fu un nuovo
intervento delle autorità che vietò questo comportamento, allora i
panettieri si inventarono il pane a forma di mattone, che risulta
uguale da entrambi i lati, il pancarrè.
Un altro segno di
disprezzo era l'uso di una scodella per ricevere il denaro del boia,
in modo da sciacquarlo prima di usarlo. Addirittura c'era tutta una
procedura per evitare di toccare la carta che autorizzava il suo
pagamento: il responsabile della Corte Criminale firmava
l'autorizzazione con i guanti e la buttava a terra, qui un addetto la
raccoglieva con le pinze usate per i camini e la gettava dalla
finestra, sotto la quale il boia aspettava. Tutto pur di non avere
contatti con lui. Se l'isolamento dai concittadini era totale, il
boia guadagnava piuttosto bene: si andava dalle 16 lire per un rogo
alle 36 per uno squartamento, passando alle 21 per un'impiccagione.
Ma, certo, la sua non era una vita invidiabile, non solo per i canoni
dell'Italia del XXI secolo, che non ammette più la condanna a morte,
ma anche per i secoli passati, in cui l'idea che una persona potesse
guadagnarsi la vita uccidendo gli altri, per quanto legalmente, era disprezzabile.
Gli strumenti usati dal boia sono
conservati oggi nella chiesa della Misericordia, che chiude la via
omonima, ma, poiché la chiesa apre solo la domenica mattina per la
celebrazione della Messa, è difficile poterli vedere. In questa
stessa chiesa i condannati a morte trascorrevano le ultime ore, prima
di salire sul carro, che, percorrendo buona parte della città, li
avrebbe portati al patibolo. Il rituale seguito nel XIX secolo, prima
dell'esecuzione della sentenza, ci è noto, grazie anche all'opera di
San Giuseppe Cafasso, presto chiamato il prete della forca, per
l'assistenza che forniva ai condannati, fino al patibolo. Dopo la
lettura della sentenza, il condannato era consegnato ai confratelli
della Misericordia, che lo portavano in una cappella, in cui, con una
catena al piede e con le mani legate, consumava il suo ultimo pasto.
Quindi doveva ricevere il boia, che gli chiedeva perdono per quello
che avrebbe fatto; i due, spesso insieme a don Cafasso, pregavano
davanti a un altare; al condannato veniva messa una corda al collo,
precedentemente benedetta: era l'ultimo atto. Subito dopo era fatto
salire sul carro che, con Cafasso accanto, lo avrebbe portato fino
alla forca. Le ultime condanne a morte vennero eseguite al Rondò
della Forca, chiamato ancora oggi così dai torinesi (si trova
all'incrocio tra corso Regina Margherita, corso Principe Eugenio,
corso Valdocco e via Cigna).
Morire per impiccagione, però, non
era affatto semplice. La sospensione improvvisa, dovuta all'apertura
di una botola o all'allontanamento di una scala, fa sì che lo scatto
del cappio spezzi il collo del condannato, facilitando, in poco
tempo, la morte per asfissia. Ma se a quei tempi il collo non si
spezzava, toccava al boia far morire il povero agonizzante. Spesso
era aiutato dai cosiddetti tirapiè, che, mentre lui cercava di
esercitare la massima trazione sulla schiena, per spezzare l'osso del
collo, tiravano per le gambe del condannato. Si sono registrati casi
di morte apparente dei giustiziati: in quei casi il boia, al minimo
cenno di possibile sopravvivenza, doveva piantare un chiodo nel
cranio della vittima. Non c'era insomma scampo per i condannati e non
c'era scampo neanche per il boia e per la spietatezza con cui doveva esercitare il proprio lavoro.
L'ultima condanna a morte fu eseguita a Torino il il 13 aprile 1864. Il più celebre dei condannati a morte
assistititi da San Giuseppe Cafasso è il generale Gerolamo Ramorino , militare
mazziniano, che fu considerato responsabile della sconfitta di
Novara, nella Prima Guerra d'Indipendenza, processato e condannato a
morte per tradimento; fu fucilato il 22 maggio 1849. Pace alla sua
anima e a quella di tutti coloro che hanno perso e perdono la vita
per condanne a morte emesse da uno Stato.
Commenti
Posta un commento