Un libro, un delitto perfetto e un fumetto. Si
potrebbe riassumere così uno dei più famosi delitti irrisolti degli
anni '50. E' una fredda serata del febbraio 1958, quando, in via
Fontanesi 20, a Torino, il giovane operaio Mario Giliberti viene ucciso con
numerose coltellate. Il suo corpo, però, non viene scoperto, così
l'assassino si spazientisce e si mette in contatto con la redazione
de La Stampa, per rivelare il suo delitto. Non c'erano le reti
sociali, non c'era la televisione e l'attenzione dell'opinione
pubblica si concentrava sui giornali e le loro scoperte.
Il corpo
di Mario viene trovato il giorno dopo la telefonata del suo
assassino, il 25 febbraio 1958. E' a letto, coperto malamente da un
lenzuolo e da un cappotto, il corpo martoriato da numerose
coltellate, inferte con un'arma mai ritrovata. Il panorama è quello
di tanti giovani meridionali, saliti a Torino per lavorare alla Fiat
e disposti a una dignitosa povertà: il giovane ucciso viveva nel
retrobottega di un calzolaio, nei pressi di corso Belgio, quasi
all'angolo con corso Tortona, senza lusso alcuno, senza aver mai dato
scandalo o creato attenzione su di sé. Chi può averlo ucciso?
Il
suo impaziente assassino, visto che la Polizia brancola nel buio,
decide di mandare a La Stampa ulteriori indicazioni, con una lettera
firmata Diabolich, in cui rivela: "Un
tempo eravamo molto amici e portavamo la divisa comune, poi lui mi
tradì come un cane. Adesso stava bene e la mia vendetta lo ha
raggiunto" Giliberti era stato effettivamente soldato per molto
tempo, aveva girato in numerose caserme italiane, cercare il
commilitone assassino è un'impresa titanica. Ma la Polizia si
concentra su un giovane bergamasco, con il quale sospetta che
Mario avesse avuto un rapporto omosessuale. Il problema è che mentre
l'accusato è in galera, arrivano altre lettere di Diabolich, così,
viste le prove grafologiche negative, la Polizia è costretta a
rilasciare l'unica persona mai fermata per l'assassinio.
E poi,
quando è chiaro che il misterioso caso difficilmente verrà
risolto, Diabolich manda un'ultima lettera: "Il mio delitto non
è un gioco da ripetersi". Da allora non si è mai più fatto
sentire, non si sa neanche se sia ancora vivo o se, come più
probabile, è morto da tempo. Negli ultimi anni questo caso, che
appassionò l'opinione pubblica italiana, è tornato alla ribalta,
grazie alle moderne tecniche di indagine: sarebbe ancora un delitto
irrisolto, grazie agli attuali studi psicologici, alle perizie
scientifiche, alle reti sociali? Chi lo sa. E' certo però che
Diabolich aveva un grandissimo senso della scena e di se stesso: una
firma che era come un brand, che permetteva di riconoscerlo e
identificarlo, di trasformarlo in una sorta di enigmatica Primula
Rossa, in grado di spaventare e di affascinare l'opinione pubblica,
con i suoi interventi criptici e con le sue lettere. Un uomo
impaziente, con un'incredibile voglia di comunicare e, probabilmente,
di essere catturato. Ma la storia ha consegnato un'ombra misteriosa e
inafferrabile, astuta e sorprendente. Il profilo ideale per un eroe
del noir.
Nel 1962, ispirate anche da Diabolich, le sorelle
Angela e Luciana Giussani crearono Diabolik, ladro spietato e
vincente, con un codice morale peculiare, fedele solo alla sua donna,
Eva Kant, compagna di vita e di avventure, anche lei fredda, astuta e
ambiziosa. Diabolich, invece, pare avesse letto un libro, Uccidevano
di notte di Italo Fasan, in cui un serial killer firmava i suoi
delitti perfetti con il nome Diabolic. Letteratura e cronaca nera
ancora una volta mescolati.