La
storia è sempre stata cosa di
uomini, anche a Torino: da Emanuele Filiberto a Vittorio Emanuele II,
sono sempre stati loro a stabilire il destino della città. Ma ci
sono le inevitabili eccezioni e a Torino più che in altre città
l'influenza femminile è stata enorme, basti pensare alle due
Madame
Reali, che hanno regnato praticamente per tutto il Seicento nel nome
dei loro figli. E non si tratta solo di politica. Nell'Ottocento
delle
opere sociali, affidate ai Santi, da Giovanni Bosco a
Giuseppe Cottolengo, c'è anche una figura di donna che ha
profondamente influenzato l'immaginario e il DNA della città. Si
tratta ovviamente di
Juliette Colbert, maritata al marchese Carlo
Tancredi Falletti di Barolo e passata alla storia torinese come
Giulia di Barolo. Chi se non lei, poteva essere?
In un'epoca in
cui
i diritti individuali non erano acquisiti, ma
dipendevano
dall'atteggiamento paternalistico delle menti più caritatevoli,
l'opera di Giulia di Barolo, supportata da quella di suo marito
Tancredi, che fu a lungo sindaco di Torino, occupa uno spazio degno
di nota. La storia di Juliette Colbert è piuttosto nota,
aristocratica, vandeana, con la famiglia decimata dalle violenze
della Rivoluzione francese, sposata a Torino, e se non fosse
sufficiente, c'è sempre
Wikipedia. Ultimamente, per casi della vita,
ho incrociato spesso la sua figura (mi manca una visita a Palazzo
Barolo per completare il quadro, praticamente) e mi hanno colpito
la
forza della sua fede e la
determinazione con cui ha sempre perseguito
i suoi obiettivi di carità: se è vero che è più facile che un
cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel Regno dei
Cieli, a meno che non si spogli delle sue ricchezz, è anche vero che
Giulia di Barolo, pur senza rinunciare alle sue ricchezze, ha
speso
ingenti somme per le sue opere di carità (si parla di oltre 12 milioni di lire dell'epoca, quasi un bilancio di Stato!) e magari vale anche
questo per conquistarsi il Paradiso.
Nel suo lavoro in favore dei
diseredati ha avuto
grande spazio l'assistenza alle giovani donne
rifiutate dalla società, fossero carcerate o ragazze madri, in
entrambi i casi disonorate e quindi senza alcun futuro in una società
perbenista, bigotta e pertanto ipocrita. Mi hanno colpito, per il
contrasto di vita che offrono,
due descrizioni della doppia vita di
Giulia,
madre putativa e amorevole di
tutte le diseredate di Torino e anche
affascinante animatrice di uno
dei salotti meglio frequentati della città, ricca proprietaria
terriera e
affettuosa fornitrice di Barolo alla tavola di re Carlo
Alberto.
L'energica e caritatevole Giulia, che offriva un pasto
caldo ai più poveri di Torino nell'atrio del suo bel Palazzo barocco
(e a volte lo faceva personalmente),
rivoluzionò il sistema
carcerario femminile, che prima di lei si limitava a nascondere le
carcerate e a non offrire loro nessuna preparazione per un'eventuale
nuova vita. Nel 1818, la giovane marchesa di Barolo, arrivata a
Torino pochi anni prima, visitò uno dei carceri femminili
torinesi insieme a
Silvio Pellico, che divenne segretario della
famiglia, tornato in Piemonte dallo Spielberg. "Quella prigione
era composta di due celle tonde assai oscure; la mancanza di luce
interdiceva le occupazioni e non potea quindi introdursi né scuola
di lettura né lavoro" scrisse Pellico dopo la visita. Giulia
non si perse d'animo al vedere tante donne ridotte a uno stato
selvaggio, lontane da ogni norma d'igiene e dignità e poco a poco
conquistò la loro fiducia. Come? Trattandole come esseri umani,
dapprima
introdusse beni materiali come coperte, cuscini, cibo,
quindi dimostrata la buona fede e la volontà di aiutare, riuscì a
insegnare "le regole della vita civile, la dottrina cattolica,
le nozioni elementari, ovvero
leggere e scrivere" scrive
Giovanni Calandriello in
Ristrette. Una storia minore "Il
carcere divenne un
luogo di condivisione e di formazione. Tanto che
il regolamento interno fu discusso con le detenute e approvato con il
consenso di tutte. Il lavoro diventò più umano e assolutamente non
umiliante, la ratio era quella di impegnarsi e di dare un contributo
all'organizzazione dell'istituto, ma soprattutto di imparare a
svolgere delle attività non solo manuali, ma anche capaci di
stimolare l'intelletto e quindi la capacità di apprendimento. Giulia
cercò quindi di trasmettere alle detenute i concetti di ozio
creativo e l'educazione alla fede". Grazie a queste esperienze,
il re la nominò
Sovrintendente alle Carceri, così Giulia organizzò
in modo più umano e razionale il sistema carcerario sabaudo. E non
solo. Instancabile, nella sua opera di solidarietà con le più
deboli, nel 1823 aprì una casa di assistenza per le ex detenute e
per le donne rifiutate dalla società, il
Refugium peccatorum: "In
questo posto, potevano imparare un mestiere, pregare e avere quindi
più possibilità di reinserimento. Spesso le donne rieducate in base
al metodo amorevole della Barolo venivano accolte a servizio in
famiglie borghesi e nobili, altre riuscivano a trovare mariti
rispettosi". Altre ancora, pur avendo ricostruito la propria
vita preferivano rimanere all'interno del
Refugium.
Le
opere
caritatevoli della Marchesa sono tante, la prima scuola elementare
per ragazze indigenti a Borgo Dora, l'Ospedaletto Santa Filomena per
bambine bisognose e operaie, il Convitto delle famiglie operaie, che
ospitava adolescenti povere ed emarginate a cui insegnare i mestieri
artigianali, molto richiesti all'epoca.
Soprattutto le donne, le vere
vittime delle società paternaliste e perbeniste dell'Ottocento, nel
lavoro di Giulia di Barolo. Nel suo testamento, la Marchesa destinò le ricchezze familiari all'
Opera Pia Barolo, ancora oggi attiva a Torino.
Ma la Marchesa Falletti di Barolo non
è stata solo questo. È stata anche
amica di intellettuali e
politici ed era
una delle dame più apprezzate e rispettate da re
Carlo Alberto. Per questo è divertente leggere il passaggio di
Tre
giorni di neve, in cui
Giovanni Battista Magliano racconta di come il
re avesse fatto capire alla marchesa quanto avrebbe gradito
assaggiare la nuova produzione di Barolo. E "la risposta
affermativa della marchesa al suo desiderio non si è fatta attendere
un solo istante: un assaggio della produzione del vino 'barolo'
sarebbe arrivato a Corte
da ognuna delle tenute dei marchesi
coltivate a vigneto, trecento venticinque per la precisione una per
ogni giorno dell'anno, a parte i quaranta della Quaresima". Ed
ecco il
racconto del viaggio di "una lungissima fila di trecento
venticinque carri trainati da buoi che sarà partito la mattina
presto da Barolo, da Serralunga, da Dogliani, da Monforte, da
Castiglioen Falletto. Sfilerà lentamente giù per la pianura lungo
il corso del Tanaro, scalerà le nostre colline, per poi arrivare
dopo un paio di giornate di viaggio a Torino, a Palazzo Reale, per la
gioia del Sommeiler di Corte e dei suoi cantinieri".
Due
mondi lontani e diversi, la povertà più degradante e la ricchezza più
raffinata,
una sola città, Torino, in cui convivevano senza incontrarsi, e
una sola donna, Giulia di Barolo, che ha saputo trovare un posto in entrambi.
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