È stato in una notte di dicembre di
ormai dieci anni fa.
Tra il 5 e 6 dicembre 2007, una fuoriuscita di
olio bollente,
sulla linea 5 dell'acciaieria della
ThyssenKrupp di
Torino, investì in pieno
otto operai, causando la morte di sette di
loro nei giorni successivi:
persero la vita Giuseppe Demasi, Angelo
Laurino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Bruno Santino, Antonio
Schiavone e Roberto Scola, che
i loro nomi non vengano dimenticati;
sopravvisse solo Antonio Boccuzzi, che parlò di
"una palla di
fuoco" che li investì, che non è mai più voluto tornare
dentro lo stabilimento della Thyssen, in corso Regina Margherita e
che sta dedicando la sua vita a esigere
giustizia per i compagni
morti e
maggiore sicurezza sul lavoro. Una palla di fuoco che gli
operai non riuscirono a fermare a causa degli
estintori vuoti o
scaduti e delle
misure di sicurezza carenti. Risparmiare sulla
sicurezza, senza preoccuparsi delle vite umane. è stata questa
la filosofia dei dirigenti del gruppo tedesco, che ha causato il rogo e la tragedia.
C'è
stato
un processo contro i dirigenti della ThyssenKrupp e contro i
responsabili dello stabilimento: l'amministratore delegato del gruppo
tedesco Harald Espenhahn è stato condannato definitivamente a 9 anni
e 8 mesi per
omicidio colposo plurimo, Cosimo Cafueri, responsabile della
sicurezza, Giuseppe Salerno, responsabile dello stabilimento di
Torino, Gerald Priegnitz e Marco Pucci, dirigenti dell'azienda sono
stati condannati a 6 anni e 10 mesi per omicidio e incendio colposi e
per omissione delle cautele antinfortunistiche; Daniele Moroni,
membro del comitato esecutivo, è stato condannato a 7 anni e 6 mesi.
Condanne pesanti, ma minori rispetto alla prima sentenza del
Tribunale di Torino e che
per gli imputati tedeschi non sono ancora
state esecutive, visto che vivono liberi in Germania e non hanno
visto il carcere neanche per un giorno.
Dieci anni dopo,
rimangono sei famiglie che hanno perso una persona cara, un uomo che
ha visto al propria vita sconvolta,
una Giustizia che ha faticato a
imporre alcuni principi che dovrebbero essere indiscutibili, come
il
dovere dei dirigenti d'azienda di garantire la sicurezza sul lavoro e
il lavoro come fonte di sostentamento e dignità e non come pericolo
di vita. Rimane anche
uno stabilimento abbandonato ormai da anni, al fondo di corso Regina Margherita, a poca distanza dalla tangenziale e di fronte al Parco della Pellerina: è stato chiuso nel 2008, in
seguito a un accordo tra la ThyssenKrupp e le autorità italiane, e
da allora non è più stato utilizzato. Un
reportage,
pubblicato da lastampa.it, ne constata
lo stato di degrado: i buchi nelle pareti per
poter entrare, i vetri rotti, i resti dei cavi ammucchiati, il vuoto
nelle grandi navate, da cui è stato portato via tutto il possibile,
dopo la chiusura.
Nel suo bell'articolo, Lodovico Poletto parla "di
quell'odore stagnante ancora sui muri dove c’era la Linea 5. E
la
fuliggine cristallizzata dal tempo e dal calore dell'esplosione è
memoria che neppure i ladri e teppisti hanno avuto coraggio di
sfiorare o cancellare a colpi di spray colorati". Guardate il
video curato da Poletto, con le riprese di Daniele Solavaggione, è
la testimonianza del degrado e dell'abbandono.
Ed è anche
testimonianza di
un edificio di grandi potenzialità, visti i suoi
grandi spazi, la luce spiovente dall'alto e quel ritmo di pilastri
che un po' ricorda
l'area dello strippaggio del Parco Dora e
un po'
le OGR appena restituite alla città dalla Fondazione CRT. Si è
parlato spesso di
come utilizzare l'area Thyssen, adesso che
l'industria pesante appartiene al passato di Torino. Trasformare
quella struttura nell'ennesimo centro commerciale di cui la città
non ha bisogno? Abbatterla e ricavarne un nuovo quartiere
residenziale? E come fare per dare
un futuro sostenibile all'area e,
allo stesso tempo,
non dimenticare la tragedia del rogo di dicembre
2007?
È ancora
La Stampa ad avanzare
una proposta suggestiva e condivisibile, che permetta allo stabilimento della Thyssen di
mantenere il fascino architettonico delle sue navate e, allo stesso
tempo, di
rendere omaggio a chi in quelle navate ha perso la vita, a
causa della negligenza di chi doveva garantire la sicurezza. Il luogo
della tragedia come "
"monumento del dolore" per i
morti della Thyssen, ma pure
per tutti i caduti sul lavoro. Non solo
per non dimenticare le vittime, ma soprattutto come
solenne monito
perché ciascuno, nelle diverse responsabilità e competenze, si
impegni a ridurre, finché sarà possibile, questo
insopportabile
carico di morte sul mondo del lavoro" scrive il quotidiano
torinese. Un luogo che non sia solo Museo di memorie tragiche, ma che
"testimoni
la volontà dell'intera comunità nazionale di
prendere tutti quei provvedimenti che sono necessari perché le
tragedie sul lavoro non siano considerate un inevitabile tributo di
vittime innocenti". Mi piace anche la considerazione fatta
dall'autore dell'articolo,
Luigi La Spina, sulla sfida che
aspetterebbe gli architetti in un eventuale concorso internazionale:
"Non più ai cieli delle nostre città, ma in
quelli, meno praticati e meno affascinanti, che sono stati
gli inferi
di ferro e di fuoco in cui si è consumata la vita di tanti uomini e
di tante donne", per trasformare la Thyssen abbandonata "in
un solenne
simbolo di promessa e di riscatto".
Una bella
proposta, a cui Rotta su Torino si unisce, pronto a seguire le
risposte e i passi che saranno dati per realizzarla.
PS Guardate
il video di Poletto e Solavaggione, al link già indicato. La foto,
da lastampa.it
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