La primavera sembra essere la stagione
di
Pietro Piffetti, il
celebre ebanista torinese considerato da
Alvar Gonzàlez-Palacios, "
uno dei più originali protagonisti del
supremo arredamento dell'intero mondo occidentale". Per lui due importanti appuntamenti, che lo raccontano in diverse sedi torinesi, quasi a ricordare la
diaspora delle sue opere e le difficoltà di
proteggere il suo
legato.
Nato a
Torino nel 1700, formatosi tra
la sua città e
Roma, tra l'esuberanza di
Juvarra e le curve di
Borromini, tornato poi a Torino alla
Corte di Carlo Emanuele III,
perché Piffetti
fu l'ebanista più amato e continua a essere uno dei
più apprezzati? L'ebanisteria, ovvero,
l'arte di comporre
decorazioni con il legno, nelle sue diverse qualità (e poi anche
attraverso intarsi di altri materiali come l'avorio), si affermò in
Francia,
all'epoca del Re Sole e da Parigi poi irradiò la sua
influenza sull'arte decorativa in tutta Europa, adattandosi alle
diverse istanze culturali. Lo stesso Piffetti discendeva da una
famiglia di ebanisti. Quello che lo rese diverso, fu
il soggiorno a
Roma. Qui, nella capitale del Barocco, che ancora
viveva della
rivalità tra Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini e in cui
convergevano gli artisti di mezza Europa, attirati
dai suoi fermenti
culturali e dal suo passato glorioso, il giovane Pietro incontrò
pittori fiamminghi, ebanisti francesi, artisti d'Europa da cui
apprese le diverse tecniche. Ma non era solo questo.
Secondo
la Fondazione Accorsi-Ometto, Piffetti seppe
differenziarsi anche
attraverso lo studio, che "gli aveva
consentito, caso quasi unico nell'ambito del mondo
dell’ebanisteria, di raggiungere una
completezza culturale pari a
quella di un gran pittore o scultore; gli aveva permesso di
rompere
gli schemi precostituiti dei modelli dei mobili e di passare da una
fase artigianale ad una assolutamente creativa e di intenso valore
artistico, nella quale legni rari, avorio, tartaruga, oro e
madreperla si erano trasformati in
duttili sostanze, la cui
preziosità era funzionale all'esaltazione di una superiore idea di
bellezza".
Tornato a Torino
nel 1731, Piffetti aveva così
un
bagaglio culturale insolito per la sua professione, in una Corte
profondamente segnata dall'effervescenza barocca di Filippo Juvarra.
Si mette subito in luce con
tre tavoli a console, oggi conservati nel
torinese Palazzo Madama e nel londinese Victoria and Albert Museum,
preziosi testimoni "dell'apprendistato nella difficile tecnica
della tarsia lignea e dei rapporti intercorsi a Roma col gusto
francese dei Daneau. Un'altra delle prime opere che il giovane
Piffetti esegue e firma – ma non data – è il
tableau già presso
il refettorio dei forestieri dell'eremo camaldolese di Torino. Si
tratta di una natura morta in un vaso con attributi simbolici della
fede; impiega nell'intarsio, oltre a legni preziosi e tinti,
l'avorio, la madreperla, la tartaruga ma anche
l'ambra, con cui
sono realizzati gli acini di un grappolo d'uva"
spiega
Giuseppe Beretti. C'è ancora un passaggio di questo stesso
articolo che trovo interessante
per definire la personalità
artistica di Piffetti e la
sua capacità di reinterpretare tutti gli
input che gli arrivavano: "
Due comò oggi al Quirinale poggianti
su piedi in legno intagliato e dorato gettano
una luce sui repertori
iconografici impiegati da Piffetti per le figurazioni delle placche:
incisioni fiamminghe di Jan van Ossenbili e Nicolaes Berchem,
da
quadri di Pieter van Lear, e
incisioni francesi di Giulio Parigi,
da
quadri di Remigio Cantagallina. Un'
incisone di Claudine Bouzonnet
Stella del 1657,
dalla raccolta Le plaisiris de l'Enfance, compare su
di un mobile in collezione privata. I fregi sono tratti dai
repertori
francesi del tardo Seicento come quelli di Paul Androuet du Cerceau.
Ma tutta questa non secondaria questione dei modelli che Piffetti
impiegò nelle decorazioni dei suoi mobili è argomento di studio
ancora poco indagato".
I mobili di Pietro Piffetti sono
pensati come
oggetti d'architettura: il tavolo da parete con scansia,
che potete vedere a Palazzo Reale, è
ispirato a un disegno di Filippo
Juvarra ed è composto da un tavolo parietale, ornato sa motivi in
tarsia, su cui "si innesta un'alzata mistilinea su cui poggia
la scansia a doppia anta a specchiera, conclusa da un fastigio che
inquadra un piccolo specchio decorato alla veneziana"
sottolineano Fabrizo Corradi e Paolo San Martino in un articolo
pubblicato su
www.predella.it. Un'invenzione che riecheggia "
l'infilata verticale
camino-sovracaminiera-sovraspecchiera delle pareti dell'Appartamento
dorato di
Palazzo Carignano e della Sala di Madama Reale di
Palazzo
Madama". Non solo: al Palazzo del Quirinale di Roma e al Museo Accorsi di Torino sono conservati
due mobili a doppio
corpo più o meno simili, nel primo "tutto è tondo. Lo spigolo
è abolito. Una
forma di tradizione è dunque trasfigurata in una
formosa e abbondante profusione di curve e in una tamburellante
emissione di belletti lignei sparsi a grandi manciate
sull'intarsiatura, divenuta una seconda pelle del mobile". Un
mobile trattato come un oggetto di architettura vera e propria, che
segue il gusto architettonico dell'epoca e gli insegnamenti di Roma,
dove
la linea curva di Borromini ha preso la scena per decenni.
E
per completare il ritratto dell'ebanista italiano più celebre del
Settecento, questa sintesi che mi è molto piaciuta, dallo stesso
articolo: "Piffetti dunque lavora su più livelli.
Dalla
dimensione locale eredita il gusto per la materia, le forme di base
per le strutture dei mobili.
Dal tronco franco-fiammingo fiorito
nella Francia di Cucci e Boulle riceve l'arte della
marqueterie.
Dall'Italia di Juvarra trae sia l'eleganza disegnativa, sia la
raffinatezza decorativa, dosata in misura più meridionale che
settentrionale".
Di questo artista straordinario e curioso,
che seppe
trasformare i mobili in opere d'arte di raffinatissima
decorazione,
sperimentando materiali, disegni e colori, è rimasto
un
patrimonio non controllato,
sparso tra Musei Enti e collezioni
private. Solo a Torino, trovate i suoi tavoli, le sue scrivanie e i
suoi inginocchiatoi tra Palazzo Madama, Palazzo Reale, la Reggia di
Venaria Reale, la Palazzina di Caccia di Stupinigi e il Museo Accorsi-Ometto. E le sue opere sono
protagoniste di due delle più
importanti mostre della primavera torinese:
Genio e Maestria - Mobili
ed ebanisti alla corte sabauda tra Settecento e Ottocento, che,
dal
16 marzo al 15 luglio 2018, alla
Reggia di Venaria Reale offre un viaggio lungo
due secoli, per illustrare un mestiere d'arte "raffinato, corto
e complesso" attraverso mobili d'arte di grande valore, alcuni
dei quali esposti per la prima volta perché appartenenti a
collezionisti privati; al
Museo Accorsi-Ometto è in corso,
fino al 3 giugno 2018,
Da Piffetti a Ladatte – Dieci anni di
acquisizioni, che mostra, tra gli ultimi acquisti della Fondazione,
anche
due mobili di Piffetti, che si aggiungono alla collezione (nel
percorso espositivo del Museo c'è
il mobile più bello del mondo, il
mobile a doppio corpo di cui sopra, un trionfo di decorazione e linee
che vale la pena vedere: se siete turisti a Torino, inseritelo tra i
faraoni e le pellicole).
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