Questa è una di quelle interviste che
avevo in agenda sin dalla nascita di
Made in TO, perché ho sempre
apprezzato
Elena Pignata, la sua creatività e la sua capacità di
dare credibilità e reputazione al suo marchio,
Ombradifoglia,
mantenendo l'indipendenza in un mondo così concorrenziale come
quello della moda. Ci siamo conosciute durante
Talent House, a
novembre, lei stava alacremente lavorando ai costumi della
Turandot,
che sarebbe andato in scena poche settimane dopo, al
Teatro Regio di
Torino. E, siccome ho molto amato l'allestimento dell'opera, da lì
abbiamo iniziato a chiacchierare, quando ci siamo incontrate nel suo
bell'
atelier di via Catania.
- Come è andata con la Turandot?
Non è
stato il mio primo lavoro per il Teatro Regio e prima di conoscere
Stefano Poda, con cui ho iniziato a collaborare con i costumi del
Faust, nel 2014-15, non ho mai pensato all'opera come luogo in cui esprimere
la mia creatività. Il teatro è bello perché
fa sognare chi lo guarda e chi lo fa. Mi sono molto divertita, fatica a parte, perché
ho avuto molta libertà creativa. La mia parte preferita sono le
apparizioni nel primo atto, che noi chiamavamo le lune, visioni
bianche con organza molto rigida e volto in parte coperto, erano dieci e
apparivano su una pedana girevole; quella parte è proprio mia. Poda è un
regista molto esigente, ma anche uno che ti dice sì convinto,
dandoti libertà.
- Quando hai iniziato a interessarti alla
moda?
Questa è una domanda ricorrente, ma non so rispondere. Non
c'è un quando: io sognavo di
diventare architetto! Dopo
le medie, ad Alba, ho fatto una scuola che adesso non c'è più, una
sorta di piccolo IED. Quando sono andata per saperne di più, mi ha aperto la porta un professore con maglione giallo, jeans attillati, tatuaggi e orecchini, che ho pensato wow,
devo fare questa scuola. Sono stata
l'unica iscritta del mio anno, per cui per quattro anni sono stata
l'unica studentessa! Da una parte mi mancano tutte le esperienze
con i compagni di scuola, ma dall'altra è stato
bellissimo, per il continuo confronto con persone preparate e
competenti, professionisti adulti. Mi hanno insegnato molto e a 17 anni sono
andata da sola in Giappone per una sfilata, senza parlare inglese:
tutto fighissimo, non ho avuto neanche paura, tutti mi sostenevano. Di lì, poi,
terminati gli studi, sono entrata nella Vestebene del Gruppo
Miroglio, che è di Alba e sapeva già di me: avevo vinto due
concorsi, uno per presentare una collezione a Parigi e l'altro,
quello del Giappone, che aveva selezionato 20 persone su 18mila
partecipanti di tutto il mondo. Vestebene è stata un'altra grande esperienza formativa, per capire i meccanismi,
per concentrarmi e per seguire gli obiettivi. Dopo alcuni anni da
designer in varie aziende ho sentito che mi stavo disperdendo e mi
sono detta che era tempo di aprire una cosa mia: se lo faccio, ce la
faccio! mi sono detta, ed eccomi qua.
- Perché a Torino e non a Milano o a
Parigi, che sono le città della moda?
Prima di tutto la questione
economica, non potevo permettermi quelle città. Pensandoci adesso,
con la distanza del tempo, sono contenta di aver scelto Torino:
Milano mi piace molto come città, è molto dinamica, ma è anche
compulsiva, entri in un negozio, ti innamori di una cosa e la vuoi,
non si crea quel tipo di fedeltà che c'è a Torino né la lentezza
dell'artigianato. Qui mi devi dare il tempo di cucire le cose come ti
piacciono, è difficile che entri in negozio per comprarti il vestito
per l'aperitivo di stasera; se lo vuoi su misura, ripensato per te, mi
devi dare il tempo di cucirlo. Sono concetti che
nello stile di vita milanese non vanno. Qui a Torino c'è la mia
dimensione, c'è il tempo per creare, c'è lo spazio per parlare con
la cliente, le persone tornano, ti danno il preavviso per quello che
vogliono. Per questo non mi sento dentro il
fashion system.
-
Quindi il tuo sogno non sono le sfilate di Milano o di Parigi.
No,
questo non sarebbe corretto. Ho presentato per anni le mie collezioni
a Parigi, mi sono trovata molto bene, poi ho deciso di tornare a
Milano, perché riesco a vendere all'estero, a Shanghai, a Kiev, ho
punti vendita anche in Italia. Faccio alcuni capi della collezione, i
fratellini piccoli, che mando nei negozi nel mondo.
- Che effetto
ti fa?
È la cosa più bella! Mi piace molto entrare in contatto
con le persone, vedere questi figlioletti che partono e vanno a Kiev,
per dire, è una gioia: io li metto nella scatola, so che partiranno
e verranno accolti, perché poi dai negozi mi scrivono per dirmi che hanno
ricevuto, mi raccontano anche cosa e a chi hanno venduto!
- Quando disegni, immagini un modello di donna di
riferimento?
Le donne che mi piacerebbe vestire, che sono
indipendenti, professioniste, che hanno avuto la capacità di
sconvolgere la loro vita, che non devono necessariamente esibire la
femminilità; mi piace una donna
che porta i pantaloni anche in testa, nel senso che ha idea di se
stessa e non si preoccupa di quello che dice l'amica sul suo
abbigliamento. Abbiamo ancora in testa tanti codici e seguiamo ancora
tante pressioni, mi piacciono le donne che sanno uscirne. E in genere
lo facciamo dopo i 35-40 anni, che è l'età, più o meno delle mie
clienti.
- Se potessi sceglierti una testimonial?
Ce l'ho senza
dubbi: Uma Thurman mi è piaciuta per anni, adesso le affianco Cate
Blanchett. Bellissime, ma è il fascino che esprimono: non devi essere
alta, magra, grassa, devi essere affascinante. Secondo me se non hai
fascino, puoi anche metterti un
abito di Armani da 80mila euro e non saperlo portare. È una
questione di attitudine mentale alla fine, mi sa.
- Torino e la
moda?
Un rapporto complicato. Le torinesi "non si osano" o guardano
a Milano perché fa figo. Esiste un gusto torinese, però! è una cosa
che ho imparato in Vestebene: intorno al 2000, non si portava più
il pantalone a sigaretta, andavano quelli più larghi. All'epoca
disegnavo per Caractère, uno dei marchi del gruppo: bene,
preparavamo la collezione e poi i pantaloni a sigaretta per Torino.
Solo per il negozio di via Roma di Torino. Le reti vendita dei marchi
hanno agenti a volte intescambiabili, ma non per il Piemonte, dove ci
sono agenti di vendita specifici; anche per i tessuti è così, il
Piemonte è trattato in modo diverso, c'è un gusto proprio.
- Ma è
una cosa positiva o negativa?
Per me è positiva, siamo rimasti
noi, con il nostro gusto, proprio sabaudi! È un'identità, pensa
alle cose che sono nate qui e hanno poi avuto successo nel mondo
proprio perché avevano una personalità propria e un carattere.
Siamo un'altra cosa, a volte magari è lungo e complicato, perché
devi convincere le persone a togliere i pantaloni a sigaretta
e provare quelli palazzo, ma che esistano un gusto e un'identità mi
piace.
- Da dove nasce questo nome curioso, Ombradifoglia?
Mi
ha fatto pensare a questo nome Lalli, una cantautrice torinese che ha scritto una canzone in cui parlava di un'amica come un'ombra di
foglia e io mi ritrovo molto. Non solo, per anni mi è piaciuto
fotografare le ombre, mi ritrovo molto in quella cosa lì, che
nessuno nota, ma che c'è ovunque, l'ombra.
Ombradifoglia è in
via Catania 16, a Torino; il sito web è
www.ombradifoglia.com,
è anche
su
Facebook e
su
Instagram.
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