Quando
Filippo Juvarra si trasferisce a
Torino,
nel 1714, chiamato da
Vittorio Amedeo II, la costruzione
dell'
immagine di capitale di respiro europeo è già avanzata. A
vagheggiare la trasformazione della città era stato il
duca Emanuele Filiberto, che
aveva spostato la sua capitale
da Chambéry a Torino e che aveva
dovuto fare i conti con la
debolezza del suo Ducato, uscito devastato
da decenni di guerre, prima di poter disegnare una Torino all'altezza
delle sue ambizioni. Basti pensare che il suo primo pensiero fu la
costruzione della Cittadella, per difendere la città da ogni futuro
assedio, e che la
chiesa di San Lorenzo, l'
ex voto per la vittoria a San Quintino,
fu costruita solo dai suoi eredi.
Primum vivere, insomma. E, una
volta messi in ordine i conti dello Stato e data una stabilità
economica, furono i
suoi successori a disegnare la nuova Torino, con
gli ampliamenti che le avrebbero poi dato la
caratteristica forma a
mandorla.
C'erano già stati
Carlo e Amedeo di Castellamonte, che
avevano dettato i
codici dell'architettura omogenea, ancora oggi caratteristici del centro di Torino; c'era già stato
Guarino Guarini, che aveva introdotto la
linea curva, nobilitato i
laterizi in facciata e disegnato
cupole di influenze orientali. La
collina era già punteggiata di Vigne, compresa quella del
Cardinale
Maurizio, che chiudeva teatralmente l'
asse prospettico della
Contrada di Po, verso l'unico ponte sul fiume.
La Basilica di Superga (sin) e la Galleria Grande della Reggia di Venaria Reale (des)
Insomma, la città
aveva già tracciato la sua strada di
vetrina e sfondo della
magnificenza dei sovrani assoluti. Cosa porta di nuovo l'architetto
siciliano, proveniente dalla solare Messina e, soprattutto, dalla
Roma crogiolo di culture, incontri, influenze e suggestioni? La
risposta non è semplice e dipende anche dalla propria visione
dell'architettura. Per quanto possa essere banale, in un'immagine già
tracciata di città, Juvarra porta il suo
talento, la sua
fervida
immaginazione, la sua
capacità di assorbire e fare proprio, con
risultati originali, le
culture con cui è entrato in contatto, dal
barocco fastoso della sua Sicilia al dibattito romano imperniato sulle
figure di Borromini e Bernini. Mi è molto piaciuto un passaggio di
un lungo articolo firmato da
Sara Martinetti, in cui analizza
l'elaborazione del
gusto decorativo juvarriano tra Roma e Torino e scrive
che durante il suo ultimo soggiorno romano,
nel 1732, l'architetto
vide
alcuni pannelli in lacca della Cina, "che potrebbero
ottimamente prestarsi alla decorazione dei reali appartamenti di
Carlo Emanuele III, in abbinamento con le porcellane 'che S.M.abonda
nelle sue guarderobbe'. Ancora una volta, dunque, Juvarra trova a
Roma un'opportunità, difficile dire quanto cercata e quanto invece
colta al volo, che innesca la sua fervida inventiva". Talento al
vedere le cose, apprezzarle e immaginarle utilizzate.
La
fervida
inventiva di Filippo Juvarra è quello che ha iniziato a dare a
Torino l'
immagine di capitale non più di un Ducato, ma di un Regno
con ambizioni di visibilità europea. È con lui che si costruisce
l'immagine di una
raffinatissima vita di corte, in grado di
rivaleggiare con l'eleganza e la sontuosità di quella francese. La
Galleria Grande di Venaria, la Palazzina di Caccia di Stupinigi, lo scalone
dell'atrio di Palazzo Madama come
manifesto dello stile dei Savoia e
della loro magnificenza nel Settecento. Appoggiato dal suo sovrano,
che ha in lui
uno dei suoi uomini di fiducia, Filippo crea
un'
architettura scenografica, fatta di
assi visuali e prospettici, di
luce che gioca teatralmente con le superfici, di
decorazioni che
riempiono gli spazi. Sono Roma e la Sicilia che parlano, ma in una
versione corretta per Torino.
In una città che ha già iniziato a
controllare il territorio attraverso punti visuali che ne definiscono
gli assi, lui prepara
i più importanti: quello ideale, che
dalla
Basilica di Superga porta al
Castello di Rivoli, collegando presente
e passato della dinastia; quello disegnato sul suolo, visibile e perfettamente leggibile
ancora oggi, che
da Palazzo Reale porta alla
Palazzina di Caccia di
Stupinigi, in un rettilineo di chilometri, in cui l'edificio si avvicina come
una danza. E disegna il
trionfo fastoso del più vicino alla città, quella
Villa della Regina, che fu Vigna del Cardinale Maurizio, da lui reinventata tra padiglioni, fontane e grande esedra scenografica alla fine dell'asse visuale, di via Po, appena sopra la chiesa della
Gran Madre.
La Palazzina di Caccia di Stupinigi
In una città che ha già dato ai
laterizi dignità di
facciata nelle splendide curve di
Palazzo Carignano, lui usa lo
stesso materiale per dare
un ingresso aulico e allo stesso tempo
severo, dalla strada di Susa, in un contesto oggi non più leggibile
con la stessa forza di allora (i
Quartieri Militari sono 'tagliati'
da corso Palestro che si ruba il protagonismo, impedendo di leggerne il ruolo di l'ingresso al centro storico).
In una città
già abituata
alle residenze fuori porta, lui costruisce
le più
sontuose, quelle in cui è più chiaro il gusto raffinato e
settecentesco dei Savoia: la
Reggia di Venaria Reale, che abbellisce
con le sue maniche più eleganti e scenografiche (non solo la
Galleria Grande, perfetto elemento di passaggio in cui luce e
decorazioni sono protagoniste, ma anche la
Cappella di Sant'Uberto,
in cui le illusioni ottiche e i giochi scenografici sono una lezione
della meraviglia barocca, e le cosiddette
Scuderie Juvarriane, con il loro ritmo severo, oggi prospetto ideale delle mostre della Reggia), e
quella che è il suo capolavoro, la
Palazzina di Caccia di Stupinigi
con il trionfo della linea concava e convessa, che è allo stesso
tempo controllo dello spazio e del territorio, giocosità leggera,
maestria d'architettura e monarchia assoluta.
Architetto di
spazi
ex novo, come la Palazzina di Caccia, la Basilica di Superga, che gli
ha dato l'immortalità tra noi torinesi, all'essere il primo segnale
della città che si avvicina, dalla strada per Milano, e architetto
di chiese e spazi
adattati al gusto del Settecento, come le facciate delle chiese
gemelle di San Carlo e Santa Cristina (del progetto juvarriano fu realizzata solo quest'ultima), in piazza San Carlo, la chiesa
di San Filippo Neri, ancora oggi la più grande di Torino, il
Santuario della Consolata che, visti tutti i rimaneggiamenti, non sei
stato veramente Architetto di Corte se non ci hai messo mano.
Palazzo Madama e il suo scalone
Segnalo
due spazi reinventati da Juvarra, che sono capolavori d'architettura
e che testimoniano il suo
gusto scenografico, ideale sfondo della
cultura assolutista sabauda, in quel
Secolo dei Lumi che quel potere
mise in discussione (curioso, no?). A
Palazzo Madama, che le due
Madame Reali, Cristina prima e Giovanna Maria poi, trasformarono
da
fortezza medievale in dimora aristocratica, Filippo creò
una
facciata nuova, capace di mantenere adeguatamente la scena in quella
che era da secoli la più importante piazza cittadina; la decorazione
di gusto classico, riprende elementi romani, si
apre in grandi finestroni non ancora visti a Torino e si amplia nel
suo atrio fastoso, in cui i due grandi scaloni simmetrici sono
accompagnati da stucchi e ghirlande.
La Scala delle Forbici, a Palazzo Reale
Una decorazione ripresa
anche nella Scala delle Forbici, l'altro suo capolavoro torinese, inserita
in
Palazzo Reale, in uno spazio angusto, per portare agli
appartamenti degli allora principi Carlo Emanuele e Anna Cristina di Baviera.: l'
arco come elemento
architettonico principale, sostenuto da una decorazione di conchiglie
e simboli sabaudi, alcuni con significati anche statici, la
luce come
elemento che piove morbidamente, a esaltare le curve e le ombre degli
stucchi. Un
gusto per la scenografia che Torino non avrebbe più
perso.
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