Nell'isolato in cui ci sono
oggi
il grattacielo di Intesa San Paolo e il Giardino Nicola Grosa,
fino agli anni 70 del Novecento c'era il
Mattatoio di Torino. Un po'
difficile immaginarlo oggi, in posizione quasi centrale, ma quando fu
costruito,
nella seconda metà dell'Ottocento, era nella periferia
cittadina,
al di là della ferrovia di Milano, e permetteva di
allontanare dal centro le attività considerate poco decorose come la
macellazione e, allo stesso tempo, di controllare che tutti i
procedimenti avvenissero secondo strette norme igieniche. La
vicinanza della ferrovia facilitava anche
il trasporto degli animali
e delle loro carni.
Il nuovo Mattatoio fu progettato
dall'architetto
Antonio Debernardi, che si ispirò alle più avanzate
soluzioni tecniche dell'epoca; fu realizzato proprio
davanti al
carcere Le Nuove, che si stava realizzando nello stesso periodo. A
dare all'area una vocazione legata alla produzione della carne, ci fu
anche il
trasferimento del mercato del bestiame. Quando Torino iniziò
a espandersi oltre la ferrovia e venne costruito
Cit Turin, elegante
quartiere della buona borghesia, la presenza del Mattatoio divenne
ingombrante, fastidiosa, anacronistica, fino alla demolizione. La
racconta
Vittorio Messori in
Il Mistero di Torino, il libro che ha
scritto con
Aldo Cazzullo. La sua premessa è che il destino di
quest'area fu una delusione per lui, cronista di
Stampa Sera: doveva
diventare una "nuova city, il centro direzionale con il suo
grappolo di scintillanti grattacieli. Tutto rimase naturalmente sulla
carta" (se solo avesse saputo, pochi anni dopo).
"Quella
dei mattatoi, era una
demolizione necessaria, oltre alla congestione
di veicoli (gli animali non arrivavano più da molto tempo, sui
raccordi ferroviari di Porta Susa, ma su camion), il quartiere era
costantemente
ammorbato dal pesante fetore delle tripperie, dove si
cuocevano gli intestini degli animali". Messori non è tenero al
ricordare il Mattatoio, i suoi odori, le sue stragi. Superata via
Duchessa Jolanda, arrivava "il sentore nauseabondo, grasso, che
veniva dagli immensi calderoni dove cuocevano trippe e frattaglie. (…)
Lo conobbi bene quell'
assommoir degno di Zola, quell'inferno urbano,
nascosto alla vista ma non al naso. La maggior parte dell'enorme area
era un ammasso di costruzioni informi, impregnate sinistramente da un
secolo di uccisioni, di sangue, di strida, di gemiti agonici. Nel
silenzio della notte, passando lì davanti,
sentivi muggire, nitrire,
belare. Gli animali avvertivano di essere giunti al luogo della morte
e sembravano invocare che qualcuno li liberasse". Tutto questo a
un passo, ormai, dal cuore della città. Se il Mattatoio andava
eliminato, per una questione igienica e pratica, non così andava
abbattuto l'intero complesso. Messori ricorda che "andavano
salvati l'edificio austeramente eclettico all'entrata, che ospitava
gli uffici, nonché le
pensiline ottocentesche in ghisa (che
ricordavano Parigi con le sue Halles) dello scalo merci interno, dove
un tempo arrivavano i vagoni con gli animali. Un ambiente ferroviario
di grande suggestione e anche di sobria e nitida eleganza".
Stampa Sera lanciò una campagna per salvare
dall'abbattimento gli edifici, ma sappiamo come è andata. Oggi,
su
quello che fu il Mattatoio ci sono il grattacielo, nuovo simbolo del
XXI secolo, e un
giardino silenzioso e frequentato dalle famiglie, a
poca distanza il Palagiustizia. Un'area in forte rinnovamento, alla
ricerca di una definizione non ancora trovata, ma lontana dal suo
passato.
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