È stato un articolo de
La Stampa,
pubblicato qualche giorno fa, per raccontare il
dibattito politico
sulla
costruzione del Traforo del Frejus. L'ho letto e mi sono
appassionata, sia per i non tanto
impliciti rimandi alla costruzione
della
TAV oggi, sia per tutto quello che aveva
significato per
l'ingegneria europea lo studio e la realizzazione di quel tunnel. Il
primo a pensarci fu
Giuseppe Francesco Medail, un imprenditore
valsusino, di Bardonecchia, trapiantato a Lione: fu lui a preparare
un rapporto per
re Carlo Alberto, in cui,
nel 1840, spiegava come
sarebbe stato possibile costruire un tunnel ferroviario sotto il
Frejus, individuando per primo in
Bardonecchia e Modane ingresso e
uscita della galleria. Così concludeva la sua relazione al re: "Il
traforo delle Alpi renderà in termini di
vitalità e attività, e
farà del
porto di Genova il primo dell'Europa meridionale: mai
sovrano avrà dotato il suo regno di un monumento così grande e così
utile".
Il primo treno nel tunnel del Frejus (sin), la strada del Frejus prima del tunnel (des)
Aveva anticipato troppo i tempi e non vide il suo
sogno diventare realtà, morendo pochi anni dopo, nel 1844. Però
doveva aver gettato il seme, perché a quel tunnel di collegamento
tra il Piemonte e la Savoia si continuò a pensare. In un secolo che
iniziava a credere
nelle macchine e nella tecnologia come strumenti di progresso e che
aveva conosciuto
la prima rivoluzione industriale, la realizzazione
del tunnel più lungo d'Europa fu appassionante. Non solo dove far
passare la galleria, ma anche
come costruirla. Alla realizzazione
delle macchine necessarie contribuirono
ingegneri e
scienziati di tutto il continente: il belga
Henri Mauss, a cui furono
affidati gli studi preliminari, progettò la prima macchina
perforatrice. "Il
generale Menabrea, deputato per sei
legislature e poi senatore, e il
ministro Paleocapa, entrambi
ingegneri di chiara fama, ne avevano studiata l'efficienza. Gli studi
preliminari erano stati inviati alle
università e accademie
scientifiche di tutta Europa. Infatti intervenne un fisico di
Ginevra, il professor
Daniel Colladon, che suggerì altre macchine,
prima animate dal vapore, poi dall'aria compressa. Con altre
modifiche, si aggiunse l’inglese
Thomas Bartlett. Negli Anni 50,
entrarono definitivamente in gioco gli ingegneri
Germano Sommeiller,
deputato,
Severino Grattoni e
Sebastiano Grandis. La loro innovazione
tecnologica si basava su macchine idrauliche a colonna. Ne scaturì
la macchina idropneumatica, che avrebbe risolto la situazione"
scrive
Walter Barberis su
La Stampa. Era il minuscolo Regno di Sardegna, ultimo Stato
transalpino rimasto, fu capace di chiamare a sé le migliori menti
della scienza per migliorare i collegamenti tra i suoi territori.
Scienza e politica camminavano insieme. Mentre gli ingegneri
risolvevano i problemi pratici della realizzazione del tunnel, il
conte Camillo Benso di Cavour, Presidente del Consiglio dei Ministri di
Vittorio Emanuele
II, era impegnato a
convincere il Parlamento dell'utilità e della
fattibilità del tunnel. Perché davanti alle grandi opere visionarie
ci sono sempre gli oppositori, quelli che evocano
paure ataviche, pur
di non affrontare il progresso e il futuro. Negli anni '50
dell'Ottocento, gli oppositori al tunnel del Frejus non potevano
parlare di amianto, però sì di
laghi sotterranei che avrebbero
invaso la Valle di Susa, di
gas velenosi, che avrebbero ucciso gli
abitanti e, come ultima spiaggia, di
mostri dormienti che le mine e
le esplosioni avrebbero risvegliato. In Parlamento, il più fiero e
preparato oppositore del progetto era
Cristoforo Moia, che dubitava
sia delle
capacità tecniche del Regno di Sardegna, sia, soprattutto,
delle
risorse economiche necessarie per realizzarlo. La
sconfitta di
Novara, nel 1849, aveva lasciato allo Stato pesanti debiti, il
bilancio era in rosso di ben
680 milioni di lire, una cifra che non sarebbe
impallidita davanti ai miliardi di euro di oggi. Com'era possibile, in una simile situazione economica, pensare di costruire un'opera così
visionaria e colossale, mai tentata prima, la cui utilità era tutta
da dimostrare? Vi suonano queste critiche? Sì, suonano familiari.
Ci volle
l'appassionato discorso di Cavour, il cui finale è
intriso di orgoglio, determinazione e forza visionaria. Eccolo:
"Signori, l'impresa che vi proponiamo, non vale il celarlo, è
impresa
gigantesca; la sua esecuzione dovrà però riuscire a
gloria
e vantaggio del Paese. Le grandi imprese non si compiono, le immense
difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro
cui è dato di condurre queste opere a buon fine, abbiano una
fede
viva, assoluta nella loro riuscita. Se questa fede non esiste, non
bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria.
Se fossimo uomini timidi, se ci lasciassimo
impaurire dal pensiero
delle responsabilità, potremmo adottare il sistema del deputato
Moia. Ma non avvezzi a queste mezze misure,
non usi a propugnare una
politica timida, vacillante e perplessa, vi invitiamo a librare nelle
vostre bilance i due soli sistemi razionali: quello dell'esecuzione
oppure il rinvio ad altri tempi di questo ardimentoso tentativo. Io
mi lusingo, signori, che voi dividerete questa nostra fiducia. Io
spero che darete un voto deciso. Se dividerete la nostra credenza,
votate risolutamente con noi. Se un dubbio vi tormenta che nelle
viscere della montagna che si vuole squarciare si nasconda ogni
maniera di difficoltà, di ostacoli, di pericoli, rigettate la legge;
ma
non ci condannate ad adottare una via di mezzo, che sarebbe in
questa contingenza fatalissima. Ho fiducia che voi seguirete sempre
una politica franca, risoluta. Se voi ora adottaste la proposta Moia, inaugurereste assolutamente un altro sistema; ed io ne sarei
dolentissimo, non solo perché andrebbe perduta questa stupenda
opera, ma perché un tal atto sarebbe un
fatale augurio per il futuro
sistema politico che sarà chiamato a seguire il Parlamento. Noi
avevamo la scelta della via; abbiamo preferito quella
della
risoluzione e dell'arditezza; non possiamo rimanere a metà; è per
noi una condizione vitale ineluttabile
progredire o perire. Io nutro
ferma fiducia che voi coronerete la vostra opera colla
più grande di
tutte le imprese moderne, deliberando il perforamento del
Moncenisio".
Il
15 agosto 1857, il Parlamento
subalpino
approvò la costruzione dell'opera: dei 128 parlamentari,
con maggioranza a 65, 98 votarono a favore, 30 contro; in bilancio,
41.400.000 lire per la realizzazione. I lavori iniziarono due
settimane dopo, alla presenza di re Vittorio Emanuele II, su progetto
definitivo di Germano Sommeiller, che diresse anche i lavori,
Sebastiano Grandis e Severino Grattoni. Il cantiere non si fermò
neanche quando
la Savoia passò alla Francia, nel 1860. Anzi, quasi partì una gara: i francesi accettarono di
pagare
19 milioni di lire, per contribuire alla realizzazione del
tunnel, a patto che i lavori si concludessero
entro 25 anni; per
questo avrebbero pagato 500mila lire per ogni anno guadagnato e
600mila lire per ogni anno al di sotto dei 15. La Galleria del Frejus
fu inaugurata il
17 settembre 1871, 14 anni dopo l'inizio dei lavori; Torino celebrò con un corso
Vittorio Emanuele II illuminato a festa e simbolicamente trasformato
nella galleria. Vi lavorarono
oltre 4mila operai,
48 dei quali
persero la vita, eternamente ricordati in piazza Statuto, a Torino,
nel
monumento ai Caduti del Frejus.
Un'opera visionaria e
gigantesca, che ha
cambiato per sempre i rapporti economici,
commerciali e culturali tra Italia e Francia e che, insieme al
Canale
di Suez, costruito in quegli anni, ha
cambiato l'idea che l'Europa
aveva di se stessa e dei rapporti tra i popoli.
Il discorso di
Cavour e le immagini sono tratti da
una bella pubblicazione del Ministero dei Trasporti
dedicata al Frejus, il primo traforo delle Alpi. Un'altra storia
piemontese che meriterebbe
una fiction tv, per farla conoscere e per
far conoscere
uomini e coraggio straordinari.
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