Enrica Pagella, nata a Ivrea (TO), 62 anni, laureata in Storia dell'Arte,
è direttrice dei Musei Reali di Torino
Sì allo sviluppo, al futuro, agli orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di questa sezione, TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì, uscendo dalle loro zone comfort, e con quali forze ed energie accettano le sfide di quei sì. Le domande sono uguali per tutti gli intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
È più facile dire sì, sempre. Non voglio fare un trattato
filosofico, ma il sì apre prospettive, apre un campo di fiducia; il
no comporta una chiusura e ritaratura degli obiettivi
- Il sì più folle, quello che ha
detto senza pensarci, e quello più faticoso?
Uno dei sì folli
che ricordo con maggiore intensità è una gara di slalom gigante
fatta da ragazza, con la scuola, pista ripidissima e nebbia. Dovevo
scendere sì o sì. Lo ricordo come uno dei momenti più difficili,
ma è stato un'esperienza emblematica di situazioni analoghe che poi
ci si trova ad affrontare nella vita. Folle e faticoso.
- C'è un
sì di cui si sente orgogliosa e uno che, ripensandoci, non direbbe?
Quali sono?
Sono orgogliosa di aver detto sì alla maternità, con
tutto quello che ha comportato circa la sfida di conciliare la grande
passione per la professione con la responsabilità familiare. Non
credo ci sia un sì che non direi più, ripensandoci... sto passando
in rassegna la mia vita velocemente e non mi viene in mente niente.
Tutti i sì mi sono probabilmente serviti.
- Ha mai identificato
in cosa consista la sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le
volte che l'ha fatto?
Da ragazza la mia zona comfort erano lo
studio, la biblioteca, la ricerca, quindi una vita di relativo
silenzio e solitudine. Per quanto possa sembrare paradossale, tutto
lo sviluppo della mia carriera è andata in direzione opposta, una
vita concentrata su azione, performance, relazioni professionali. È
stato uno sviluppo di competenze, di energie, di attitudini mentali,
prima per me impensabili; l'abbandono di quella zona comfort ha
comportato per me grandi sacrifici, ma anche grandi soddisfazioni
professionali. Questo per dire che non è detto che per realizzarsi
si debbano seguire sempre le vocazioni naturali.
- Ci sono dei sì
detti da Torino, durante la sua storia, di cui si sente orgogliosa e
in cui si riconosce?
Sarà banale, ma il sì ai Giochi Invernali
del 2006 ha rappresentato una sfida grandissima, un momento di svolta
importante anche per il mio ambito, quello della cultura.
L'opportunità di uno sviluppo inedito e mai prima immaginato. In
vista delle Olimpiadi Invernali, è stato riaperto Palazzo Madama,
chiuso da 20 anni, è stato progettato il MAO, soprattutto c'è stato
il coinvolgimento di energie e di comunità che per la prima volta
sono riuscite a creare un clima di fiducia, di solidarietà nella
città. Mi sembra sia stato un momento davvero storico e importante
per Torino.
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