Marco Piccolo, 44 anni, Laureato in
Economia,
Amministratore della Dottoressa Reynaldi, educatore in
parrocchia
Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
Oltre a lavorare in azienda, sono un
educatore in parrocchia e in questi temi sono molto attento. È più
facile dire di no, perché non esci dalla tua zona comfort, stai
tranquillo, a casa, non esci da quello che sai, ma vuol dire stare
fermi, non crescere. Ed è legge di natura, ciò che non cresce,
muore. O capiamo che è impossibile rimanere fermi, non c'è scelta:
se rimani fermo muori, e infatti l'Italia e Torino sono un po' in
queste condizioni, legate al passato, senza crescere. Sarebbe più
comodo stare nella zona comfort, ma è importante pensare al futuro e
i politici dovrebbero essere i primi a pensare a un futuro
programmato: dove va una città che impiega 20 anni a disegnare una
metropolitana?
- Il sì più folle, quello che ha detto
senza pensarci, e quello più faticoso?
Ci sono vari sì folli,
il primo quando a 19 anni sono entrato nella Settimana Vocazionale a
Valdocco per diventare prete, adesso sono sposato con 4 figli. Il sì
più faticoso è quando vado a scalare in montagna, ho fatto anche
una solitaria faticosa, un po' folle. Un altro sì faticoso è stato
farmi carico dell'azienda, sono entrato a 19 anni, le cose non
andavano benissimo, è stato duro affrontare quei momenti difficili.
La cosa pesante è la responsabilità delle altre persone: le
conseguenze delle tue scelte coinvolgono persone che non ne possono
nulla e quindi senti questa grande responsabilità.
- C'è un sì di cui si sente orgoglioso
e uno che, ripensandoci, non direbbe? Quali sono?
Il sì di cui sono orgoglioso è
sicuramente al mio primogenito: avevo 20 anni, la mia ragazza 19, lei
è rimasta incinta e non abbiamo pensato ad aborto e soluzioni del
genere; ci siamo sposati e abbiamo avuto Simone, che adesso ha 23
anni, studia all'estero ed è un ragazzo fantastico e Laura è sempre
mia moglie. Ne sono orgoglioso perché quel momento ci ha cambiato la
vita e abbiamo fatto la scelta giusta: mi sono sposato, ho iniziato a
lavorare studiando la notte per laurearmi, Laura si è laureata dopo
la nascita del bambino. Abbiamo fatto tutto, ma in ordine misto, e
siamo molto orgogliosi dela famiglia che abnbiamo formato. Un sì che
non direi non c'è perché sono fermamente convinto che ogni sì sia
un'esperienza, anzi direi che quelli che vanno male sono quelli che
ti servono di più. Per un certo periodo dicevo di essere uno yesman,
perché a tutti quelli che mi chiedevano qualcosa dicevo di sì, al
dialogo, al confronto, al cambiamento, anche quello sbagliato, serve.
Diventi saggio grazie alle cadute: le persone migliori sono quelle
che hanno sbagliato tanto, Enzo Ferrari diceva che solo chi non
lavora non sbaglia. Sì sbagliati ce ne sono tanti anche perché
faccio tante cose, ma non mi pento di nulla.
- Ha mai identificato in cosa consista la
sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che l'ha fatto?
Ho molto chiare le mie zone comfort, le
spiego anche ai ragazzi in parrocchia. Avendole identificate, faccio
di tutto per sfidarle continuamente: arrampico, scalo, mi butto con
il parapendio, con mia figlia di 6 anni siamo discesi lungo le
rapide, abbiamo fatto il Cammino di Santiago, siamo stati in Nigeria
con progetti internazionali, costantemente scortati dalla Polizia. Ma
ogni volta cerco di superarmi e di mettere l'ostacolo più in alto.
Bisogna avere sogni grandi, il problema è che abbiamo dimenticato i
nostri sogni. Avere grandi sogni significa anche avere
un'organizzazione, pianificare, prepararsi, sfidarsi. Ed è bello
superare la zona comfort con altre persone, che a loro volta possono
ispirarti, aiutarti, sostenerti
- Ci sono dei sì detti da Torino,
durante la sua storia, di cui si sente orgoglioso e in cui si
riconosce?
Le Olimpiadi, che hanno dato una spinta
enorme a Torino, anche in termini di consapevolezza. La Fiat, che è
stata un'esperienza importantissima, pur con le difficoltà di
gestione della forte immigrazione: eravamo la capitale industriale
dell'Italia, era bellissimo! Ci sono tanti momenti di essere
orgogliosi, ognuno con i propri errori. Ma gli errori, come dicevo,
sono parte del fare e io sono sempre orgoglioso del fatto di averci
provato. Non hai fatto tutto bene, ma ce l'hai messa tutta, ecco la
capacità di fare e darsi da fare per me è affascinante. Per tutto
questo ci vuole però una visione, coraggio e competenza e al momento
a Torino non ne vedo.
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