Nicola Lagioia, nato a Bari, 46 anni, laureato in Giurisprudenza,
scrittore e giornalista, è Direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino
Sì allo sviluppo, al futuro, agli orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di questa sezione, TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì, uscendo dalle loro zone comfort, e con quali forze ed energie accettano le sfide di quei sì. Le domande sono uguali per tutti gli intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
Purché non si tratti di una proposta
indecente o poco interessante, è spesso più facile dire di no. Per
onorare un "sì" bisogna mettersi in gioco, ci vuole
impegno, talento, tempo, coraggio, e il tuo lavoro è sottoposto a
verifica. I "no" sono di solito più a buon mercato.
Ovviamente ci sono dei "no" fondamentali. Amo i "no"
che l'autore del diniego pronuncia a proprio danno per salvare un
principio superiore, non apprezzo i "no" che chiudono chi
li pronuncia in un'illusione di purezza ed eroismo senza conseguenze.
Non verremo giudicati solo per ciò che abbiamo fatto, ma anche per
ciò che non abbiamo fatto o non siamo riusciti a fare, specie se
puntiamo a cambiare le cose. Come dice quel motto? Se vuoi dirottare
un aereo, devi salirci a bordo.
- Il sì più folle, quello che ha
detto senza pensarci, e quello più faticoso?
Tra i più recenti, senza dubbio il sì
al Salone del Libro di Torino. Mi chiesero di fare il direttore in
una situazione disperata, sembrava quasi una missione suicida. Tutti
gli editori più grossi se n'erano andati, il Salone sembrava finito,
persino in certi ambienti torinesi lo davano ormai per perduto. In 48
ore mi sono ritrovato a cambiare tutta la mia vita: lasciai il lavoro
che facevo con grande soddisfazione da 15 anni, mi ritrovai nel giro
di una settimana a dover cambiare città, casa, frequentazioni,
abitudini di vita. E tutto per amore del Salone, a cui mi legava un
sentimento molto forte. Al mio sì seguirono quelli dei consulenti a
cui mi rivolsi - alcuni tra gli scrittori, intellettuali e
professionisti dell'editoria più in gamba del paese, alcuni anche
con importanti esperienze internazionali, che trascurarono parte
delle loro occupazioni accettando di imbarcarsi in una situazione
complicatissima, pagati un quinto di quanto prendono di solito per
altre attività. Spero che se ne serbi memoria. E' stato il sì più
folle, rischioso e faticoso degli ultimi anni.
- C'è un sì di cui si sente orgoglioso
e uno che, ripensandoci, non direbbe? Quali sono?
Di quello legato
al Salone sono orgogliosissimo, visto come abbiamo ribaltato tutto.
Abbiamo salvato e poi rilanciato un patrimonio culturale nazionale -
ogni anno è andato meglio del precedente -, e fatto sì che Torino e
il Piemonte non perdessero un elemento identitario fortissimo e anche
una fonte di ricchezza importante.
Un "sì" che non direi più
riguarda invece una cosa che successe l'anno prima del Salone, subito
dopo la vittoria del Premio Strega. Mi chiesero di condurre una
trasmissione televisiva di tipo culturale. Accettai. E mi annoiai
moltissimo. Ma poiché sono uno che onora gli impegni andai avanti,
con grande sofferenza, fino in fondo. La trasmissione andò bene,
erano tutti contenti e mi chiesero di ripetere l'esperienza
aumentandomi il compenso. Dissi di no. Tre mesi dopo arrivò la
proposta del Salone.
- Ha mai identificato in cosa consista la
sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che l'ha fatto?
Per me ogni volta che scrivo un libro
significa uscire dalla comfort zone. Considero la scrittura
un'esperienza conoscitiva, non ho mai scritto un libro uguale a un
altro, e ogni volta si tratta di inventarsi (o meglio, di scoprire)
un mondo completamente nuovo, un mondo in cui non sono mai stato.
Tutto questo crea molta tensione e fatica, compensate dal piacere
della scoperta. E' un processo molto complicato, anche doloroso (chi
scrive ha di solito a che fare con i propri demoni personali) dal
quale ogni volta esco esausto, e tieni conto che per scrivere un
libro ci metto di solito cinque o sei anni, un tempo lunghissimo.
Nella scrittura c'è la mia parte in ombra, nella mia figura pubblica
c'è invece quella in luce. Credo che la prima - a livello personale
- sia più importante, ma non è detto che sia un posto piacevole in
cui abitare. Ma forse questa non è una risposta sincera, o per
meglio dire lo è solo in parte, perché a questo tipo di lotta (si
tratti di scrivere un romanzo, o di dare il mio contributo a una
macchina molto complicata come quella del Salone) in fondo sono
abituato. Temo cioè che la mia vera comfort zone sia diventato
lavorare 16 ore al giorno, sabati e domeniche compresi, cosa che
faccio ormai ininterrottamente da 15 anni. Rompere la comfort zone
forse allora significa interrompere questi ritmi. Che cosa scoprirei,
dandomi un tempo diverso? Sto forse imparando a farlo. Così, ogni
quattro o cinque mesi, per esempio, insieme a due o tre tra le
persone a cui voglio più bene nella vita, stacchiamo tutti i
contatti con il mondo e ce ne andiamo a passeggiare qualche giorno
per i boschi. Essere riuscito a fare una cosa del genere, dopo anni,
è probabilmente il tipo di traguardo che a livello personale mi dà
più speranza.
- Ci sono dei sì detti da Torino,
durante la sua storia, di cui si sente orgoglioso e in cui si
riconosce?
La fondazione della casa editrice
Einaudi sotto il fascismo. Piero Gobetti che pubblica Ossi di
seppia di Montale. (Quando avevo diciannove anni, a Bari, per
me e uno degli amici con cui vado a passeggiare nei boschi, Gobetti
era un eroe, ne parlavamo di continuo, di notte, in un parcheggio
mezzo sfondato di fronte al lungomare). Il sì tra Piero Gobetti e
Ada Prospero.
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