Cristopher Cepernich, nato a Torino, 49
anni, laureato in Scienze Politiche
sociologo dei media e della politica all'Università di Torino.
Direttore dell'Osservatorio sulla Comunicazione Politica e Pubblica
del Dipartimento di Culture, Politica e Società.
Direttore
scientifico del Master in giornalismo "Giorgio Bocca".
Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che
sia più facile dire sì o no?
È senz'altro più facile dire sì.
Anche se ogni decisione implica sempre un'assunzione di
responsabilità individuale. Le persone però tendono ad aspettarsi
il nostro assenso, essendo invece poco inclini a ricevere il
dissenso. Quindi dire sì agli altri è più facile, perché ci costa
meno. Un no, per essere autorevole, deve essere argomentato e
spiegato.
- Il sì più folle, quello che ha
detto senza pensarci, e quello più faticoso?
Ho scarsa memoria del passato, perciò
fatico a ricordare episodi così netti. Non ricordo di aver detto dei
sì folli, perché non ho in repertorio l'agire di impulso. Se per
"folle" si intende "irrazionale", in qualche
modo tutte le decisioni lo sono almeno un po', quando non disponi di
elementi certi di previsione su come le situazioni potranno evolvere.
Per esempio, ogni decisione in ambito professionale contempla una
dose di rischio. Figurarsi nel campo delle strategie per la
comunicazione, che sono il mio tema. Sono consapevole del fatto che
molte delle scelte che devo compiere sono determinate da un
irragionevole wishful thinking. Lo metto in conto e decido.
Il sì più faticoso forse l'ho detto
a me stesso ormai molti anni addietro, quando ho dovuto decidere se
provare o meno un concorso di dottorato. Significava fare i conti con
la questione cruciale: cosa fare davvero nella vita. Il peso
simbolico ed emotivo della decisione era importante, al punto da
ricordare l'affanno ancora oggi. Dopo molti tormenti, riflessioni e
consulti, mi sono detto di sì, che forse avrei fatto bene a tentare.
Tutto sommato poi sono stato fortunato.
- C'è un sì di cui si sente
orgoglioso e uno che, ripensandoci, non direbbe? Quali sono?
Non so, non parlerei di orgoglio. È un
sentimento eccessivo, un po' rivendicativo. Piuttosto ho pronunciato
alcuni sì che mi hanno emozionati più di altri. Per esempio,
quando nel 1985 seppi dire sì alla comunione di musica e sentimento
con il rock di Bruce Springsteen. O più tardi a chi sarebbe
diventata mia moglie.
- Ha mai identificato in cosa
consista la sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che
l'ha fatto?
Non ne ho una sola. Tutti ne abbiamo
più di una, a seconda dell'ambito della vita quotidiana all'interno
del quale ci troviamo ad agire. La comfort zone è data dal perimetro
delle nostre rispettive conoscenze e sicurezze. Uscirne significa
parlare e comportarsi riconoscendosi uno status di incompetenza.
Significa agire da dilettante, assumendo una debolezza. Ecco allora
che si preferisce muoversi all'interno di una zona confortevole, dove
si rischia poco o nulla. Perciò se dovessi identificare la mia
comfort zone lo farei in base alle mie conoscenze e competenze. Mi
trovo a mio agio a parlare di teatro e arti sceniche, molto meno di
altre forme di creatività. Capisco quel po' che si deve del calcio,
assai meno degli altri sport. Conosco credo a fondo la politica e le
campagne elettorali per interesse di ricerca. Di questo, infatti,
parlo con una certa sicurezza. Non altrettanto, per esempio, di moda,
di motori e di tutte quelle cose delle quali non comprendo i codici.
È chiaro però che uscire dai soliti
schemi codificati è sempre necessario. Deve essere un'ambizione. Un
imperativo morale. Quando lo si fa – e l'ho fatto come lo fanno
tutti ogni giorno – ciò ha implicato l'accettazione di una
sfida. Uscire dalla propria zona di conferma è fondamentale per
mettersi alla prova, per superare i propri limiti. Per esempio, nel
mestiere della ricerca questa spinta a percorrere vie inconsuete è
fondamentale, anche se non sempre paga.
- Ci sono dei sì detti da Torino,
durante la sua storia, nei quali si riconosce?
Se guardiamo indietro, un sì molto
importante per Torino, certamente doloroso, è stato quello espresso
dai quadri Fiat il 14 ottobre 1980 con la marcia dei Quarantamila.
Quello è stato il sì alla chiusura di una trattativa tra azienda e
sindacati che si determinò in una fase storica di aspro conflitto
sociale, resa ancor più critica dal terrorismo sullo sfondo. A ben
guardare, è stato il sì della città alla fine di un'epoca. Più di recente,
sarà anche troppo facile dirlo, ma il sì di Torino nel quale si è
riconosciuta un'ampia parte della città è stato quello alle
Olimpiadi invernali del 2006. Non era scontato accadesse. Eppure i
torinesi ci hanno creduto e hanno detto un sì che allora suonava
come una scommessa quasi impossibile da vincere. Se poi volessimo
arrivare fino alle soglie della cronaca, un sì pesante è stato
quello un po' a favore della TAV.
Commenti
Posta un commento