Davide Terenzio Pinto, 43 anni, nato a Torino, laureato in Lettere e Filosofia
imprenditore (fondatore e inventore, tra gli altri, di Affini, Anselmo, Nero, Hempatico)
Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
Ho parlato di quest'intervista con i miei figli, i quali su
questa domanda mi hanno detto che sono decisamente un uomo del sì: tendo a entusiasmarmi e a dire sì ai nuovi progetti, alle
sfide della vita, che mi spingono a mettermi in gioco. Sono d'accordo con loro, vedo
i sì come un'occasione per vedere fino a che punto sono capace di
lottare e di raggiungere nuove mete; sono una scoperta dei
propri limiti, una crescita, magari dolorosa, a volte, ma una
crescita.
- Il sì più folle, quello che ha detto senza pensarci,
e quello più faticoso?
Il sì più folle è stato accettare di
diventare un imprenditore, il sì forse meno calcolato di tutti: è stato il tempo a spiegarmene la reale portata. Il sì più
faticoso è quello di accettazione della malattia: a 30 anni mi sono ammalato di sclerosi
multipla e ho voluto però condurre un'esistenza attiva, con tutte le
fatiche che comporta. È un sì che è stato difficile da maturare,
perché quando ti accade una cosa come questa, continuare a vivere
con lo stesso entusiasmo richiede un sì davvero pesante.
- C'è un sì di
cui si sente orgoglioso e uno che, ripensandoci, non direbbe? Quali
sono?
Sarà un luogo comune, ma è il sì alla paternità: i miei
figli sono il mio motivo d'orgoglio. Dire sì alla famiglia per me ha
voluto dire esserne parte, partecipare attivamente al progetto e ne sono molto orgoglioso. Se
posso aggiungere un altro sì di cui sono orgoglioso e che considero
importante nella mia vita, è il sì all'Officina Carpanini, detto
nel 2001: un gruppo di persone giovani e creative, adesso
imprenditori e politici, si è messo insieme, per realizzare una
sorta di officina culturale. Mi ha permesso di conoscere uno degli
uomini che più mi hanno fatto capire quanto fosse importante
l'abnegazione su un progetto, ovvero Domenico
Carpanini, che ancora oggi ricordo con grande emozione, per quanto ha
contribuito a maturare la mia etica del lavoro. La sua Officina è stata una fucina di persone e di idee
che hanno dato un bel segno a questa città.
Il sì di cui sono
pentito è stato alla prima sigaretta, ero un ragazzino, avevo 12 anni, ho
detto sì per far parte di un gruppo e oggi sono schiavo di questa
dipendenza. E questo è un sì di cui si fa molta fatica a liberarsi.
- Ha mai identificato in cosa consista la
sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che l'ha
fatto?
Non ho mai identificato la zona comfort, per di più ho dovuto
ricostruirla a causa della malattia; probabilmente è quando sono in
giardino con la famiglia e con i miei cani. Ma anche avere idee e progetti, la vitalità e la vivacità con
cui accetto le sfide della vita, li considero un po' una zona
comfort, in cui sto bene.
- Ci sono dei sì detti da Torino,
durante la sua storia, di cui si sente orgoglioso e in cui si
riconosce?
Essendo di padre meridionale, ovvero un torinese 2.0,
il sì di Torino in cui mi riconosco e mi rivedo, e che porto in giro per il mondo con orgoglio, è il
sì al vermouth, perché è un prodotto torinese rappresentato da un
torinese di prima generazione. Quando dico
vermouth dico Torino, dico sì storia e tradizione, ma dico anche attualità e immigrazione; c'è la storia della mia vita, è una sorta di
melting pot. In questo momento storico, in cui si alzano i ponti e si
creano barriere, ha una magia maggiore: poter dire che il prodotto
tipico torinese è frutto di un sì all'incontro e al meticciato culturale
e produttivo è un grande motivo d'orgoglio.
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