Paola Benedetta Cerruti, nata a Torino, 41
anni, maturità classica e Scuola di Moda Ilda Bianciotto
stilista
e proprietaria di Atelier Beaumont
Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
Per me è sempre stato più facile dire di sì, ma da un po'
di tempo a questa parte sto iniziando a dire dei no, che in realtà
sono dei sì a me stessa. Sì alla qualità della vita e al volermi
bene, il che significa dire dei no nella vita lavorativa. Magari
prima se arrivava un cliente all'ultimo momento, che mi dava scadenze strettissime, ero disponibile a lavorare nei weekend e di notte per
rispettare i tempi, ma così succedeva anche che magari non ero contenta, perché se avessi avuto il tempo giusto il risultato finale sarebbe stato diverso. Adesso
ho imparato a dire no, per dire sì a me.
- Il sì più folle,
quello che ha detto senza pensarci, e quello più faticoso?
Il sì
più folle è quello che ho detto alla Maison Valentino; avevo 21
anni, ero ancora a casa, nella mia comfort zone, un fidanzato e i
miei amici. Avevo proposte di lavoro a Torino, appena uscita dalla
Scuola di Moda, ma quando ho avuto l'offerta di andare a Roma, per
questo stage di sei mesi gratis con Valentino, ho detto subito sì,
l'ho sentita come l'occasione della mia vita. Dall'oggi al domani mi
sono ritrovata a Roma, dov'ero stata solo di passaggio, a lavorare in
piazza di Spagna, senza sapere se sarei stata all'altezza, emozionata
e un po' timorosa davanti a quelle sarte con il camice bianco. Ho investito
nell'esperienza i soldi che avevo da parte e poi dopo lo stage mi
hanno chiesto di rimanere e il sì più faticoso è stato allora,
quando ho accettato di rimanere a Roma. Sembra assurdo, ma io volevo
tornare a casa, nella mia comfort zone, con il mio fidanzato, stiamo
parlando di una ventina di anni fa, quando non c'era l'Alta Velocità
e Roma-Torino erano otto ore di treno e quindi una storia d'amore a
distanza era davvero complicata. Dire sì, rimango a Roma è stato
molto faticoso per le rinunce che mi ha chiesto, ma è stato bello.
- C'è un sì di cui si sente orgogliosa e uno che, ripensandoci,
non direbbe? Quali sono?
Il sì di cui sono orgogliosa è
ovviamente al mio Atelier. Quasi tutti quelli che sentono questa
passione per la moda sognano di poter realizzare un giorno una
propria linea e sfogare la propria creatività. L'idea era aprire
l'atelier con una socia, un'amica belga molto brava, avevamo fatto un
corso gratuito della Regione Piemonte, per imparare a fare il
business plan e capire le criticità e i punti di forza del nostro progetto. Ma alla fine del corso lei si è tirata
indietro, perché incinta del terzo figlio, io a quel punto non ho
voluto mollare il mio sogno e qualche mese dopo ho aperto il mio
atelier, a 32 anni. Per un anno ho lavorato da sola e questo mi ha
aiutato molto per l'autostima: quando lavori nelle aziende è
difficile avere una reale percezione delle proprie capacità, perché
difficilmente si realizza un abito dall'inizio alla fine. Quell'anno
da sola mi ha dato molta forza per continuare.
Il sì che non
direi più è legato ancora alla Maison Valentino, perché dopo due
anni e mezzo a Roma ho chiesto il trasferimento a Torino, per tornare
a casa, dal fidanzato e dagli amici. È stato un sì alla mia vita
torinese, ma oggi, con le consapevolezze che ho adesso e che non
avevo allora, un paio di anni in più con Valentino li avrei fatti
volentieri. La cosa curiosa, visto che si parla di sì alle sfide e
all'uscita della zona comfort, è che me ne sono andata da Roma
proprio quando avevo iniziato ad avere la mia zona comfort romana,
con la mia casa, il mio giro, la stima delle colleghe. Me ne sono
andata nel momento in cui stavo meglio, dopo aver superato i
durissimi inizi!
- Ha mai identificato in cosa consista la
sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che l'ha
fatto?
La mia zona comfort è quando tutto è a posto e in ordine,
uscirne significa crescere. Nel mio lavoro ogni persona, ogni
tessuto, ogni abito è una sfida ed è sempre stimolante per me.
Considero un'uscita dalla zona comfort aver assunto per la prima
volta una persona, una stagista a cui ho proposto di rimanere, perché
significa fidarmi, crescere e anche iniziare a tramandare questo
mestiere; io credo molto nella condivisione di quello che si sa. Mi è
capitato di lavorare a Roma con sarte molto brave che mi hanno
accolto come una figlia e a Torino ci sono state sarte brave che però
erano gelose del mestiere ed è una cosa che non voglio fare, non
voglio che il senso artigianale di questo lavoro si perda. Ed è
stata una sfida perché la crisi nel nostro settore c'è: non è
facile far capire il vero valore di un abito realizzato su misura con
tessuti di qualità.
- Ci sono dei sì detti da Torino, durante la
sua storia, di cui si sente orgogliosa e in cui si riconosce?
Torino
a me è sempre piaciuta, anche da ragazza. È una città molto aperta,
con progetti innovativi, locali multietnici, festival, musica, arte
contemporanea, offre davvero tanto. Sono orgogliosa di due sì, uno
riguarda l'impegno sociale di Torino, che si riflette anche nel mio
settore: le Scuole Tecniche San Carlo, per esempio, hanno corsi
gratuiti per adulti, immigrati, donne in attesa dell'asilo politico;
insegnare un mestiere per ridare dignità e per aiutare l'inserimento
nel mondo del lavoro è una cosa che ho sempre apprezzato tantissimo.
C'è anche la Sartoria Sociale Chieri, fondata grazie al Museo del
Tessile di Chieri, che ha creato un brand, Reborn in Italy, per dare
un'opportunità a queste donne in difficoltà. Anche l'altro sì di
cui sono orgogliosa è un sì etico: a 17 anni ho scelto di non
mangiare animali e di diventare vegeterariana, poi vegan e Torino è
una città pioniera in questo senso. Il primo Veg Festival è stato
fatto qui, è anche la città più vegan d'Italia, per i tanti locali
che hanno fatto questa scelta, ed è la più sensibile a queste
tematiche. È una città molto etica e sociale, anche coraggiosa,
perché accetta queste sfide, che non sono facili.
Commenti
Posta un commento