Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona
. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
Parlo come imprenditrice di un ramo particolare, quello della pasta fresca, uno dei settori caratterizzanti del Made in Italy: penso che dire sì alle sfide sia bello e importante per un imprenditore, per crescere e migliorare il proprio business, ma ritengo che sia doveroso anche
dire dei no, per difendere la propria coerenza e, nel nostro caso, il patrimonio culturale di cui siamo espressione. Per esempio, l'orecchietta
tricolore anche no, perché l'orecchietta dev'essere fatta con determinati ingredienti e in un determinato modo, altrimenti non è
più orecchietta. E anche i
tortellini con il ripieno di pesce, che una volta ci sono stati
chiesti, noi non li facciamo, perché c'è una tradizione che sentiamo di dover tutelare.
- Il sì più folle, quello che ha detto
senza pensarci, e quello più faticoso?
La mia famiglia è
emiliana e penso che per questo i sì folli facciano un po' parte di
me e della nostra azienda. Sì folli, detti per entusiasmo e passione, ce ne sono tanti, cito quello che abbiamo detto vent'anni fa, alla
Città del Vaticano, che per la cena d'apertura del Giubileo del 2000
ci ha chiesto un prodotto con forma e ripieno particolari, creato per
loro. Lo abbiamo realizzato con tanto entusiasmo, tanto orgoglio,
tanta emozione, anche con un po' di timore. È stato poi un bel successo: c'era
Giovanni Paolo II e da allora, tutte le volte che andava in vacanza
in Valle d'Aosta, gli mandavamo su la pasta fresca. Non ci sono sì
faticosi, non mi appartengono: sì un po' folli sì, ma faticosi no,
mai.
- C'è un sì di cui si sente orgogliosa e uno che,
ripensandoci, non direbbe? Quali sono?
Il sì di cui sono molto
orgogliosa è quello detto a mio padre, quando mi ha chiesto di
affiancarlo in azienda. È stato come la chiusura di un cerchio,
perché speravo che me lo chiedesse. Sono la primogenita, ho iniziato
ad affiancare mio padre durante l'università, mentre davo gli
esami, viaggiavo e vivevo la mia gioventù. Poi dopo la
laurea, con i figli già un po' cresciuti e gli anni trascorsi in azienda, mio padre mi ha fatto
questa proposta e ho detto di sì, molto orgogliosa. Pochi anni dopo,
sono arrivate anche le mie sorelle, Laura, che conduce con me l'azienda, ed Elena,
che è fotografa e lavora dall'esterno per noi.
I sì che non
direi di più sono quelli detti a chi ha approfittato della nostra
disponibilità e poi ci ha deluso.
- Ha mai identificato in cosa consista la
sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che l'ha
fatto?
La mia zona comfort, in cui io sono felice, serena e
meravigliosamente soddisfatta, è la mia famiglia, ovvero mio marito
e i miei figli e, allargando il campo, mio papà, le mie sorelle, i
nipoti; io sono un po' chi organizza le riunioni familiari, i pranzi, i
compleanni. Se parliamo invece da un punto di vista professionale,
non c'è momento più di questo che mi abbia fatto capire quale fosse
la zona comfort. La nostra azienda trasforma le materie prime
in prodotto finito, che distribuisce nei punti ristorativi e non;
quindi per adempiere ai nostri obblighi su igiene,
sicurezza e normative, abbiamo una sequenzialità di cose da fare che
si ripetono in modo regolare: l'arrivo delle carni, delle farine, le cotture,
avvengono tutte in giorni, tempi e modi stabiliti e organizzati. Il coronavirus ha sconvolto questa quotidianità, l'80% del
nostro lavoro è andato in fumo, considerando che i ristoranti e i
locali che riforniamo sono chiusi. Saltata la zona comfort, abbiamo dovuto reinventarci e abbiamo lanciato il servizio gratuito a domicilio, affinché i nostri clienti possano continuare a mangiare la pasta fresca (tutte le info per le prenotazioni sono
qui). Abbiamo avvertito forte la responsabilità nei
confronti dei nostri venti dipendenti e devo dire che loro sono stati
meravigliosi: hanno accettato la cassa integrazione, le ferie, si
sono addirittura autoridotti il numero di ore lavorate per non
gravare in modo eccessivo sul bilancio. Un'uscita dalla zona comfort
che mi sta insegnando tanto, sulla capacità di reinventarsi e di
prendere in mano quello che rimane. È
un'esperienza che mi sta facendo pensare molto ai miei nonni, che,
con le dovute distanze, hanno dovuto reinventarsi dopo la guerra,
mettendo in piedi l'azienda che adesso guidiamo io e le mie sorelle.
- Ci sono dei sì detti da Torino, durante la sua storia, di cui si
sente orgoglioso e in cui si riconosce?
Il sì alle Olimpiadi,
senza dubbio! Grande! È stata una scommessa, che si è trasformata
in un grande successo, ci identifica totalmente. Un altro sì che
sento vicino a me è quello alla riqualificazione dei quartieri,
penso a San Salvario, cos'era e cosa è diventato, o piazza Emanuele
Filiberto, come è stata riqualificata e come è diventata. La capacità
di integrare nuove culture e progetti imprenditoriali nuovi e di fare
di tutto questo una cosa bella e divertente. Noi torinesi siamo solidi, se diciamo una cosa, la facciamo, non
parliamo a caso; da qualche anno le cose sono diventate più
complicate, diciamo che non abbiamo un'Amministrazione che aiuta chi
dice sì.
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