Luciano Pia, nato a San Giusto
Canavese, 59 anni, laureato in architettura
architetto (autore di 25 verde, Casa Hollywood, Molecular Biotechnology Center)
foto di
Michele D'Ottavio
Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
È più facile dire di no, mi sembra evidente. Se dici di sì
non sai cosa ti aspetta, se dici di no, finisce lì e non hai più
incertezze. Quello che ci fa paura è l'incertezza, non sapere cosa
succederà; amiamo quello che conosciamo, ci risulta più difficile
affrontare lo sconosciuto. E, per quanto sia più facile dire di no,
è anche vero che fortunatamente nel nostro lavoro di architetti
diciamo sempre sì a cose che non conosciamo: i clienti sono sempre
diversi, ogni progetto è una cosa nuova, si inizia ogni volta daccapo, con le relazioni
nuove da instaurare, per fare un pezzo di strada
insieme. E a volte mi è capitato anche di aver detto dei sì, ma, facendo quel pezzo di
strada insieme, si è visto che era meglio dire di no e ho fermato
i progetti.
- Il sì più folle, quello che ha detto senza pensarci,
e quello più faticoso?
Forse il più folle è stato quando ho scelto di fare
l'architetto, dato che non avevo idea cosa volesse dire. Ho scelto
di studiare Architettura senza pensarci troppo: non sapevo bene cosa fare dopo il Liceo
Artistico. Così mi sono detto che
se alla maturità fosse uscito Figura avrei fatto l'Accademia, quindi Scultura, se fosse uscito Architettura, avrei fatto Architettura. È uscito
Architettura. Ha deciso il fato e la cosa curiosa è che nei miei
sogni di bambino non c'è mai stato di fare l'architetto. Come tutti
i bambini facevo navi o aerei di carta, da far navigare nelle
pozzanghere o far volare verso il sole e questo era quanto.
Il sì più faticoso della mia
vita professionale è stato forse Casa Hollywood. È arrivato in un momento
in cui la crisi economica iniziava a farsi sentire, era in un'area
che non è facile da capire, un fabbricato non facile da condividere,
in un momento che stava diventando molto difficile. È stato davvero
faticoso gestire il tutto, non mi riferisco al lato progettuale, che è sempre la parte più bella del nostro lavoro, era tutto il contorno, che accompagna sempre il progetto e che richiede
spesso competenze che devi formarti sul campo. Dico sempre che gli
architetti dovrebbero essere anche ingegneri, economisti, sociologi,
filosofi, bravi comunicatori e psicologi.
C'è un sì di cui si
sente orgoglioso e uno che, ripensandoci, non direbbe? Quali
sono?
Sono orgoglioso di tutti i progetti che ho realizzato. Casa Hollywood dicevo che è stato un progetto
faticoso, ma sono contento di averlo fatto, così come sono contento
di 25 verde e del Molecular Biotechnology Center. Ho fatto tre cose nella vita, queste tre, e tutto quello che ho fatto è stato per arrivare a realizzare loro tre.
Un sì
che oggi non direi è probabilmente quello allo Juventus Hotel, non è
servito né a me né a loro, dato che lo hanno cambiato completamente; è un sì che non è servito a nessuno, quindi oggi non lo direi più.
Ha mai identificato in cosa consista la
sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le volte che l'ha
fatto?
La mia zona comfort è riuscire a capire cosa devi fare, lo spazio in cui sai chi sei, cosa ti chiedono e hai un'idea precisa del
tuo compito e del tuo ruolo. Quando esco da quello stato diventa
tutto più complicato, perché non so più cosa si aspettano da me,
cosa mi chiedono, qual è il mio ruolo, quali risposte dare. Non amo la confusione.
Ci
sono dei sì detti da Torino, durante la sua storia, di cui si sente
orgoglioso e in cui si riconosce?
Sono orgoglioso di Torino, trovo
sia una delle città più belle e più interessanti in cui vivere;
dovessi scegliere dove vivere, sceglierei Torino, per la qualità
della vita e la sua giusta dimensione. Mi
interessano i sì del presente: la sfida che sta affrontando adesso, quella del
dopo-Fiat, perché è appassionante e difficile. Anche da un
punto di vista urbanistico e architettonico ha davanti sfide
interessanti: deve lavorare sul territorio, perché si è costruito tanto
senza pensare allo spazio urbano, senza costruire davvero la città e oggi va
fatto quello. Non possiamo pensare di continuare a costruire o di
demolire per costruire ancora, dobbiamo lavorare su quello che c'è
per adattarlo alla qualità urbana che vogliamo. C'è un grande
lavoro da fare, che vale la pena, Torino sta iniziando a farlo e
penso sia molto interessante.
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