Non c'entra la
quarantena, che spinge a
guardare molte
serie tv, c'entra
Matteo Martari. L'avevo intravisto
in
Un passo dal cielo,
I bastardi di Pizzofalcone e
I Medici 2 (che
ho visto fino alla penultima puntata digerendo tante semplificazioni
ed evitandomi, nell'ultima, la morte di Giuliano e la vendetta di
Lorenzo), l'ho visto poi in
Bella da morire, qualche settimana fa, e
mi sono detta, "ok, è ora di approfondire la conoscenza".
Quindi ho iniziato a guardare
Non uccidere, di cui avevo molto
sentito parlare per via della protagonista femminile,
Miriam Leone, e
per la
location,
Torino (è stato un "ma dai, c'è anche lui in
Non uccidere?! È proprio ora di guardarlo!").
E ve lo dico:
Non uccidere è piuttosto pesante, è pesante la protagonista, l'ispettore di Polizia Valeria Ferro, con un
carico di problemi e complicazioni che farebbe scappare chiunque
(spesso pure lei stessa), sono pesanti le atmosfere, le storie, i
personaggi.
L'unico raggio di luce è davvero il personaggio di
Matteo Martari,
Andrea, una specie di
principe azzurro malcapitato in un
posto di
disperati e casi umani. E
però.
Anche se è pesante, se
ha
atmosfere molto nordiche e noir, se c'è
profonda infelicità,
borghese o proletaria, nella maggior parte delle storie narrate,
Non
uccidere si fa guardare (ho visto anche tre puntate di seguito e
considerando che durano più o meno un'ora l'una...). E
tra le
ragioni per cui guardarla, a parte i progressi della storia di
Valeria Ferro con le sue complicazioni familiari e sentimentali, c'è
Torino. Forse perché sono torinese, non lo nego, ma è anche vero
che in un video dietro le quinte,
pubblicato su youtube,
Claudio
Corbucci, che ha scritto la storia, ha detto di non essere
mai stato
a Torino prima di
Non uccidere e di aver avuto una specie di
rivelazione.
La città è
fotografata con filtri blu che ne
esaltano le
atmosfere nordiche e lugubri, ci sono anche
certe
nevicate che magari a Torino, ma che servono all'ispirazione da noir
scandinavo che pervade
palesemente tutta la storia. Ci sono anche
incongruenze tipo che Valeria Ferro guida in corso Moncalieri
direzione Gran Madre e finisce alla Piscina di via Filadelfia, alle
spalle del PalaAlpitour e dello Stadio Grande Torino. Ma sono
dettagli che
solo noi torinesi possiamo notare. Chi ha
scelto le
location cittadine ha anche le idee chiare sulle
reali dinamiche
torinesi: i casi che coinvolgono la
buona borghesia si muovono
intorno alle
eleganti palazzine della collina o, vera finezza, tra i
loft panoramici di Borgo Aurora, nuovo punto di riferimento nella
città che rinasce dalle ristrutturazioni delle sue fabbriche
abbandonate. È presente
anche la periferia, dalle case di ringhiera
ottocentesche ai grandi casermoni degli anni 70 circondati dai
garage. C'è
molta Spina 3, che deve affascinare gli sceneggiatori,
per la sua intensa presenza, compreso il tunnel Donat Cattin. Forse
il tutto sarebbe più credibile se qualcuno, di tanto in tanto,
parlasse con un leggero accento torinese, ma questo è un
problema di
tante fiction italiane, che quando si svolgono in Piemonte riportano
accenti romani, milanesi, veneti, ma
mai locali.
La città
fotografata
è altera e davvero fascinosa nelle vie del centro: i
portici di
via Po con le
Luci d'Artista, la bellezza neoclassica e
incombente della
Gran Madre (la protagonista abita in piazza Vittorio Veneto), una
piazza San Carlo di sfuggita, molta
via Carlo Alberto con la statua del re a cavallo sullo sfondo (la
Questura, in cui lavorano i protagonisti, è collocata a
Palazzo Birago di Borgaro,
nella realtà sede della Camera Commercio), certe
morbide discese
della collina, diversi
palazzi liberty della collina e della
Crocetta. Ma
non c'è solo la Torino da cartolina immersa in un
inverno permanente e fascinoso. Ci sono le
periferie e poi tanti
posti che conosco e che non sono però riuscita a collocare nella
mappa della città. Quel taglio di via che mi sembra a Mirafiori Sud,
ma chissà, quelle case popolari che forse sono in via Pianezza ma
non sono sicura, quella casa liberty che è dalle parti di corso
Gabetti, ma non ricordo in quale via, quello scorcio che ho visto
mille volte, ma dove cavolo è. Ecco, se c'è
una cosa che devo a Non
uccidere è essermi resa conto, all'improvviso, che
non conosco
davvero Torino.
La do per scontata: passo davanti a tanti posti, ma
non li memorizzo, sono
parte del mio immaginario quotidiano, quello
che
rimane come sfondo a commissioni, appuntamenti, passeggiate con
mete più importanti. Guardo questi posti torinesi che so di
conoscere e che non so collocare, guardo Street View per vedere dov'è
il tale palazzo, non lo trovo dove pensavo, cerco velocemente nella
memoria per trovare
qualche appiglio e metterlo al giusto posto. E
c'è anche
questa quarantena che fa
ripensare a tante cose.
Ho la
fortuna di vedere
buona parte di Torino dalle mie finestre. Vedo la
città, dalla collina al Monviso, ce l'ho a portata di mano, ma
non
posso raggiungerla, rimpiango i gesti più
banali per frequentarla, frugo nella memoria
i dettagli. La vedo in
Non uccidere, mi rendo conto di
non aver memorizzato i suoi dettagli: la città
come sfondo della mia
vita, senza darle mai l'importanza che merita, perché è lì, c'è
sempre e
certi posti si imparano a memoria come le canzoni di Eros
Ramazzotti,
a furia di frequentarli, ma senza osservarli. Ecco, se
c'è una cosa che mi ha insegnato
Non uccidere è a
curarmi dei
dettagli della mia città. Ti prometto, Torino, che non appena sarà possibile
ritornare nelle tue strade, a guardare i tuoi scorci,
non me ne
perderò uno. E il buon Matteo Martari ha una nuova telespettatrice
alla prossima fiction, si sappia pure questo.
Le immagini, screenshot dagli episodi della serie; le puntate delle due stagioni di Non uccidere sono
su RaiPlay.
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