Sì allo sviluppo, al futuro, agli
orizzonti da scoprire; No allo sconosciuto, all'incertezza, alla
novità. Se n'è parlato tanto in questi mesi e, guardando le piazze
e ascoltando i discorsi, mi è venuto in mente un magico verso di
Dante Alighieri, che ha definito l'Italia il Bel Paese dove il sì
suona
. Mi è sempre piaciuta l'idea di una terra allora divisa in
tanti Stati, rivalità e avversioni e unificata dal suo monosillabo
più ottimistico, agli albori del volgare. Così è nata l'idea di
questa sezione TorineSÌ, per scoprire quando i torinesi dicono sì,
uscendo dalle loro zone comfort, e quali forze ed energie trovano per
accettare le sfide dei loro sì. Le domande sono uguali per tutti gli
intervistati e grazie a tutti i torinesi, nati qui o arrivati per
scelta, per le loro risposte.
- Pensa che sia più facile dire sì o
no?
Pensando al sì e al no in generale, è
più facile dire di sì, non scontenti nessuno e ti liberi dei
problemi. Nell'accezione scelta per
TorineSÌ,
in cui il sì è accettazione della sfida e il no è il rifiuto dello
sconosciuto, è decisamente più facile dire di no, soprattutto in
una fase d'emergenza come questa che stiamo vivendo: la tendenza è
rimanere allineati e coperti, possibilmente rintanati, che è cosa
doverosa, come sappiamo, ma c'è modo e modo. C'è chi resta
rintanato per paura e c'è chi nel frattempo si prepara: è un tempo dilatato, da utilizzare perché, secondo me,
nella tragedia che rappresenta, è anche una grande opportunità.
Persone che hanno in genere poco tempo per se stessi, adesso non
hanno scuse né alibi per fermarsi a pensare e a valutare. Poi ci
sono le diverse sfumature dei sì da dire, dalla programmazione
all'entusiasmo. Ci sono tanti sì possibili in questa fase e sarebbe
un peccato, per chi può permetterseli, non dirli.
- Il sì
più folle, quello che ha detto senza pensarci, e quello più
faticoso?
Ho detto tanti sì folli, appartengono un po' al mio
DNA! Dovendo sceglierne uno direi il progetto della Vigna di Villa della Regina: è
stato lucida follia. È stato un sì per motivazioni poco razionali:
obiettivamente la condizione di partenza era molto complessa, c'erano
99 buoni motivi per dire no, era una situazione di totale abbandono sul terreno, con un contesto
istituzionale e burocratico complesso, pochissime chance di riuscita dell'operazione; non si trattava solo di impiantare una vigna, ma di farlo rispettando una storia e per avere un prodotto all'altezza del luogo, che è stato la vera incognita del nostro impegno.
Il sì più
faticoso è al mio lavoro, quotidianamente. È un lavoro che richiede
molti sacrifici: in vigna si lavora 7 giorni su 7, non c'è tempo
libero, poco il tempo per la famiglia e per se stessi. Ed è anche un
atto di fede, viviamo sotto un cielo che in 10 minuti può spazzare
un anno di lavoro; siamo una piccola azienda familiare e quindi
bisogna seguire tutto più o meno personalmente. Non è facile:
magari gli amici organizzano un weekend insieme e tu non puoi andare
perché viene qualcuno in cantina, c'è una fiera o una qualunque
attività con persone che lavorano tutta la settimana e possono dedicarti solo il weekend. È un sì
quotidiano che puoi dire solo per grande passione.
- C'è un sì di
cui si sente orgoglioso e uno che, ripensandoci, non direbbe? Quali
sono?
Sono orgoglioso del sì detto a questa vita: ho fatto il
liceo classico e mi sono laureato in Giurisrpudenza, poi mi sono
dedicato alla vigna. Mio padre mi ha lasciato libero nelle scelte,
perché mi ha sempre sottolineato quanto bisogna amare questo lavoro
per potergli dedicare la vita; ha voluto che studiassi secondo le mie
inclinazioni, perché magari la mia strada poteva essere un'altra. Mi
hanno lasciato vedere com'era il mondo per poi decidere liberamente
cosa fare. È finita che mi sono laureato di sabato e il lunedì stavo
scaricando le casse di Freisa. Un sì di cui sono orgoglioso per la
passione, la convinzione e la libertà con cui l'ho detto,
scegliendolo da ragazzo giorno per giorno e senza pentimento oggi,
nonostante le fatiche e i sacrifici che comporta.
Sono in
difficoltà a individuare il sì che oggi non direi. La mia
forma
mentis è molto razionale, quindi ci sono scelte che peso mille volte
prima di decidere, magari in 10 minuti; inoltre sono uno che impara
molto dai fallimenti e dalle delusioni, penso che addirittura servano
di più dei successi, quindi tutti i sì mi servono.
- Ha mai identificato
in cosa consista la sua zona comfort? Cosa ha implicato uscirne, le
volte che l'ha fatto?
Mi muovo in un mondo che in certe dinamiche
è ancora un po' ottocentesco, con una zona comfort da "abbiamo
sempre fatto così", per cui quello che funzionava 30 anni fa
deve funzionare adesso, ma ovviamente non è così. Sono dinamiche da
cui ho sempre amato tirarmi fuori, un po' per la sfida, un po' perché, essendo la terza generazione, ho sempre sentito la responsabilità di
fare un passo avanti rispetto a quello che ho ricevuto. Uscire dalla zona comfort è un'azione quotidiana per me, ho
sempre cercato di capire come
hackerare il sistema del vino, che
viaggia con dinamiche molto consolidate, innestate su un
pubblico cambiato. È come se prendessi Dante Alighieri e lo mettessi
a parlare al bar.
Il punto nodale è che il modo di approcciarsi alle
persone che amano il vino, da parte dei produttori e dei media, dovrà
fare i conti con il cambio generazionale che il mondo ha avuto e che
il vino non ha seguito. Trovare il modo di parlare di vino, che è
emozione e sentimento, è una delle mie passioni: se non riesce a
provocare emozione, è semplicemente una bevanda. Ed è anche una
delle ragioni per cui è nato Stappatincasa, che ogni sera su Facebook alle ore
19 parla di vino con i produttori, durante la quarantena (
per seguire i collegamenti, questo il link). È stato un
modo per far mettere la faccia ai produttori davanti a una webcam,
per parlare di vino direttamente al pubblico, uscendo dalla zona comfort.
- Ci sono dei sì
detti da Torino, durante la sua storia, di cui si sente orgoglioso e
in cui si riconosce?
Il primo pensiero è ovviamente la Torino
olimpica: i Giochi sono una delle svolte torinesi più importanti che
ho vissuto. Ma preferisco uscire un po' dallo schema per dirti che il
sì che mi colpisce maggiormente è quello che Torino dice tutti i
giorni. Noi torinesi, indipendentemente dalle dinamiche politiche e
sociali, siamo persone che non mollano; manteniamo l'
understatement
sabaudo, ma c'è quest'incredibile resilienza che mostriamo
continuamente. Anche in questo momento così difficile, vedo una capacità di reazione
per superare la situazione, in modi non convenzionali, fantasiosi,
fuori dagli schemi. Questo mi rende molto orgoglioso di essere
torinese; mi ritrovo pensando a Villa della Regina: nonostante le
mille ragioni per dire no, ho detto poi di sì e ho accettato la
sfida che comportava e trovo che questo sia molto torinese.
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