Sempre in equilibrio precario per garantirsi l'indipendenza dalle
potenze europee, interessate a quel prezioso corridoio rappresentato
dalle sue valli, tra la Francia e l'Italia, il Ducato di Savoia non
aveva tempo per trasformarsi in potenza marinara. Neanche
l'arrivo dello sbocco sul mare, con Nizza, nel XIV secolo, cambiò le
priorità: nessun interesse a diventare concorrenti di Genova e Venezia, allora regine del
Mediterraneo sulle rotte commerciali, l'instabilità politica di quei
tempi inquieti non lo permetteva.
A cambiare le carte in tavola,
ancora una volta, il Duca Emanuele Filiberto,
il più visionario e il più sottovalutato dei sovrani sabaudi, principe del Rinascimento che
meriterebbe maggiori studi e maggiore presenza sui libri di scuola.
Dopo aver spostato gli interessi della propria dinastia in Italia,
trasferendo la capitale e i beni dei Savoia a Torino (Sacra Sindone
compresa), dopo aver iniziato il risanamento dei conti dello Stato e
la razionalizzazione dell'economia disastrata dalle numerose guerre
che Francia e Spagna si facevano usando il territorio del Ducato,
dopo aver intrapreso la fortificazione della sua capitale, con
la Cittadella più complessa e più straordinaria che si fosse vista a
quei tempi, Emanuele Filiberto volse lo sguardo al mare. Non per
mettersi in competizione con le potenze marinare dell'epoca, ma per
far sapere che il Ducato di Savoia c'era, aveva un proprio porto e
intendeva avere la propria parte sulle rotte del Mediterraneo. Fu per
questo che il Duca decise di rispondere all'appello del Papa e
partecipò alla più importante battaglia del Cinquecento, quella di
Lepanto, che vide le potenze cristiane dispiegare le proprie forze
contro l'allora arrembante Impero Ottomano, pronto a portare l'Europa
sotto la Mezzaluna, dopo essersi impadronito di Costantinopoli, poco
più di un secolo prima. Era il 7 ottobre 1571 e tra le navi che
sbaragliarono la flotta ottomana c'erano anche le tre piccole galere
del Duca di Savoia, guidate dall'ammiraglio Andrea Provana di Leinì.
Per gli Ottomani fu una sconfitta storica, che fermò le pretese
di conquista dell'Occidente e di controllo del Mar Mediterraneo;
l'unico comandante sopravvissuto in quel disastro immane, fu Uluč
Alì. Ed è qui che si chiude il cerchio. Emanuele Filiberto e Uluč
Alì, terrore dei mari e delle coste italiane per le sue incursioni
alla ricerca di bottino e di schiavi, si erano infatti incontrati una
decina di anni prima, nel 1560, a Nizza, quando il principe sabaudo,
già appassionato di mare, aveva deciso di arrivare nei possedimenti
piemontesi recuperati dopo il Trattato di Cateau-Cambrésis non dalle
valli alpine, ma, per l'appunto, via mare. All'epoca, Uluč Alì, che
le cronache italiane chiamavano Occhialì, storpiando il suo nome
turco, batteva il mar Tirreno. Furono le sue spie ad avvertirlo che
nella rada di Villafranca, senza alcuna scorta, c'erano il giovane
Duca di Savoia, perciò decise di dirigersi verso le coste nizzarde.
Quando Emanuele Filiberto vide arrivare le navi corsare, capì che
sarebbe stato inutile ogni combattimento, essendo impari le forze in
campo, perciò decise di negoziare il proprio riscatto. Uluč Alì
era un pirata di origini calabresi, un cristiano rapito dai corsari,
venduto come schiavo, che aveva a lungo rifiutato la conversione
all'Islam, accettata solo dopo aver realizzato che, avendo ucciso un
marinaio, avrebbe evitato la pena di morte (per i musulmani che
uccidevano cristiani non c'erano condanne). Recuperata la libertà,
divenne in poco tempo uno dei più audaci corsari al servizio del
Sultano di Costantinopoli, con una storia d'avventuriero crudele e a
volte galante che potete leggere nel libro
Il grande ammiraglio, a
lui dedicato da Enzo Ciconte. Il suo prestigio a Corte era tale che,
tornato nella capitale dopo la storica sconfitta di Lepanto fu
trattato come un eroe e ricevette numerosi riconoscimenti, morendo
poi, anni dopo, nel proprio palazzo e in ricchezza.
L'incontro
con Emanuele Filiberto si risolse con il pagamento del riscatto da
parte del Duca e con una richiesta che non si sa quanto reale e
quanto leggendaria. Ma le leggende sono belle e si riportano
ugualmente, avvertendo che potrebbero essere semplicemente tali. Il
pirata ottomano pretese di poter salutare la Duchessa Margherita, la
moglie di Emanuele Filiberto, sorella di re Enrico II d Francia. La
richiesta mise in imbarazzo il Duca e il suo seguito: perché il
corsaro voleva incontrare la Duchessa? Quali pericoli poteva
rappresentare o, allo stesso tempo, a quale umiliazione voleva
sottoporla? Era giusto mettere Margherita in una situazione così
imbarazzante? A risolvere la situazione, racconta Ciconte nel suo
libro, intervenne una dama di compagnia della Duchessa, "la
contessa Maria de Gondi, moglie di Claudio di Savoia, parente di
Emanuele Filiberto – la quale propose uno scambio di donne. Sarebbe
stata lei, nei panni della duchessa, a incontrare Occhialì. E così
fu. In mezzo a un corteo sfarzoso, circondato da uomini armati di
archibugi e da un gran numero di rais, Occhialì incontrò in una
sala del forte una donna che pensava fosse la duchessa; la quale,
raccontano alcuni – ma che il fatto sia vero non è certo –,
dietro una tenda guardò l'incontro un po' incuriosita, ma anche un
po' lusingata da quella bizzarra richiesta che proveniva da un uomo
già famoso per le sue imprese e per la sua indubbia audacia".
Tutto l'incontro è avvolto nella leggenda, ma se davvero ha
avuto luogo, pare che Uluč Alì, mai abbia saputo di non aver
incontrato la nuova Duchessa di Savoia, anche se proprio
quell'incontro mancato gli ha poi lasciato fama di pirata galante.
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