Il cuore del principe Eugenio di
Savoia-Soissons riposa oggi nel Duomo di Santo Stefano, a Vienna,
insieme ai resti del grande condottiero degli Asburgo. Ma non è
sempre stato così. Savoia per sangue, figlio del principe Eugenio Maurizio, francese per
educazione, allevato dalla madre Olimpia Mancini, nipote del
cardinale Mazarino, alla corte di Luigi XIV, austriaco per scelta,
una volta entrato a servizio degli imperatori viennesi, Eugenio fu
uno dei principi più cosmopoliti, colti e liberali del suo tempo. Della sua preziosissima collezione
si è già detto su Rotta suTorino e qui la menziono solo per dare un'idea di quanto il principe
non fosse legato solo alla guerra e alle sue strategie, ma anche alla
cultura, alle arti, al buongusto. Secondo Giusi Audiberti, nel libro
Il fantasma del castello, Eugenio si
distingueva anche per "la sua
fermissima coerenza con il proprio sistema di valori: coraggio,
fedeltà, padronanza di sé, una reputazione immacolata, una parola
di cui ci si potesse fidare incondizionatamente".
Sebbene
cresciuto a Parigi e poi trasferitosi a Vienna, sebbene indipendente
nelle proprie scelte e nei propri giudizi, Eugenio ebbe sempre chiaro
di essere un Savoia. Lo dimostra anche il fatto che chiese che, una
volta morto, il suo cuore fosse sepolto nella Basilica di Superga, a
Torino, insieme ai resti degli altri membri più importanti del suo
casato. Un gesto sorprendente, che parla di consapevolezza e orgoglio
dinastici e che racconta un tenero affetto per un Ducato lontano
dalle sue scelte personali (fu Vienna, non Torino, la città in cui scelse di vivere), ma evidentemente presente nel suo intimo. Un Ducato
che Eugenio contribuì a salvare nel 1706, quando il suo arrivo fu
determinante per la liberazione di Torino dall'assedio dei Francesi.
Se Torino non fu una città fondamentale nella vita del grande
condottiero, Eugenio sì fu fondamentale nella storia della
città.
Anche la Basilica di Superga è profondamente legata a
lui: è un ex-voto del duca Vittorio Amedeo II per la vittoria
nell'assedio di Torino. Diventato Re di Sicilia, grazie al trattato
di Utrecht, durante una visita nell'isola, Vittorio Amedeo conobbe
Filippo Juvarra e lo convinse a trasferirsi a Torino. Grazie al
grande architetto siciliano, la capitale dei Savoia conobbe la
fastosa stagione del barocco più sorprendente, tutt'intorno sorsero
le delizie più eleganti e raffinate e sulla cima di uno dei colli
torinesi fu eretta la Basilica di Superga, dove, per volere di
Vittorio Amedeo, vennero sepolti i membri di Casa Savoia.
Ed è
qui, nella cripta della grandiosa Basilica, che inizia il mistero.
Quando, il 22 aprile 1736 Eugenio di Savoia Soissons spirò,
effettivamente il suo cuore fu estratto, prima dei solenni funerali
che paralizzarono Vienna. Ma arrivò mai a Torino? Se arrivò, non
c'è documentazione che lo racconti. Ci fu una cerimonia per
accogliere il suo ingresso in città? Ci fu corteo per accompagnarlo
fino a Superga? Ci fu una cerimonia solenne per la sua inumazione? Al
momento non ci sono documenti storici che lo provino. Strano, no?
Viste le conoscenze fumose circa il trasferimento e la presenza del
cuore di Eugenio nella Basilica, non bisogna stupirsi se, ad un certo
punto, se ne persero le tracce.
La cosa interessante è che nel
1974 fu necessario aprire la Kreuzkapelle, la cripta del Duomo di
Santo Stefano in cui riposano anche i resti di Eugenio. E lì, sopra
la sua semplice bara di legno, fu trovato un cofanetto a forma di
cuore con la scritta
Cor Serenissimi Eugenii Francisci Sabaudiae
Principis qui mortuus est Viennae XXI Apri, Anno Dni MDCXXXVI. In
qualche momento imprecisato della storia, il cuore di Eugenio era
tornato a lui. Chi lo trafugò da Superga e perché? Come riuscì a
entrare nella cripta di Santo Stefano, per lasciarlo sulla bara di
Eugenio? E' un mistero che difficilmente potrà essere chiarito. Ma
non si può nascondere che tutta questa storia, dal desiderio di
Eugenio di essere presente a Torino con la parte più intima di sé,
il proprio cuore, al ritorno misterioso del suo cuore a Vienna, per
riposare sopra la sua bara, ha un che di irresistibilmente romantico.
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