La
Corte Medievale di Palazzo Madama torna a ospitare una bella mostra
fotografica al femminile. Dopo
le inquietudini sociali e rivoluzionarie di Tina Modotti, è il turno di undici fotografe che hanno raccontato le
loro storie sul
National Geographic. Sono Lynsey Addario, Jodi Cobb,
Kitra Cahana, Diane Cook, Carolyn Drake, Lynn Johnson, Beverly
Joubert, Erika Larsen, Stephanie Sinclair, Maggie Steber, Amy
Toensing e la mostra a loro dedicata si intitola
Women of vision.
Su
grandi pannelli bianchi, le immagini raccontano i matrimoni forzati
delle bambine afghane, i paesaggi urbani e
naturali del nostro pianeta, le peculiarità della cultura sami, la
vita segreta dei grandi felini africani, la condizione di inferiorità
della donna afghana, il sogno americano degli emigrati
latinos, non
sempre destinato a realizzarsi. Ci sono denunce sociali puntuali e determinate, una grande passione per la natura in tutte le sue manifestazioni, un'attenzione sorprendente per
i colori. Stephanie Sinclair insiste sulla forza del rosso, per
denunciare la violenza dei matrimoni delle spose bambine afghane;
Erika Larsen utilizza la distanza dei colori freddi per farci
innamorare dei sami e del grande Nord; Diane Cook punta sui
contrasti cromatici nei ritratti dei grandi paesaggi urbani americani.
Esiste
uno sguardo femminile del mondo? Un uomo non avrebbe saputo
fotografare il paesaggio americano, i felini africani, gli
adolescenti texani o le spose bambine afghane con sensibilità e
attenzione? Non so se esiste una risposta univoca, anche se l'ho cercata, guardando le immagini della mostra. Mario Cattaneo,
direttore di
National Geographic Italia ha invece le idee molto
chiare: "Ci sono storie, a questo mondo, che
possono raccontare solo le donne. Un po' perché ci sono società in
cui è ancora terribilmente radicata la separazione di genere, come
nel caso delle spose bambine documentate per più di tre anni da
Stephanie Sinclair. E se per di più c'è di mezzo una macchina
fotografica, solo una donna può riuscire a penetrare con discrezione
entro mura dove si svolgono rituali tanto privati. E a volte tanto
atroci. Un po' perché solo gli occhi di una donna possono afferrare
un vissuto di questa natura" dice nel pannello introduttivo alla
mostra "Non c'è maschio sulla faccia della terra, o quasi, che
possa vagamente immaginare che cosa significhi essere sottoposti a
forme tanto brutali di sopraffazione fisica e psicologica". I
pannelli della mostra riportano come molte fotografe abbiano sentito
una discriminazione di genere durante la loro carriera e come abbiano
dovuto lottare contro gli stereotipi per affermare la propria
professionalità e la propria passione per la fotografia. Meno male
che lo hanno fatto.
Ci sono immagini di grande forza, di grande
impatto e di grande violenza (non capite male, non ci sono immagini
cruente, ma nella negazione di un diritto, in un abbigliamento
imposto, in uno stile di vita indotto, c'è sempre una violenza
implicita, che l'immagine non nasconde) e sono tutte testimoni della forza e del coraggio delle
loro autrici. Erika Larsen ha vissuto per tre anni, nel Nord più
estremo con i sami, per conquistare la loro fiducia, impregnarsi
della loro cultura e scattare le immagini più naturali; Kitra Cahana
ha vissuto a lungo con gli adolescenti texani, è entrata nel loro
stile di vita, per poter poi essere libera di fotografarli nei loro
momenti più personali e significativi; Jody Cobb ha lavorato per un
anno con le vittime della tratta umana. E' impossibile guardare
queste immagini senza pensare alla determinazione e alla passione
delle fotografe.
Per questioni logistiche, l'ultimo pannello che
ho letto, ormai all'uscita della mostra, è stato quello
introduttivo. Mentre lo leggevo ho fatto pace con un film che ho
visto principalmente per l'attore protagonista, Nikolaj Coster Waldau
(ok, a volte si fanno queste cose, a tutte le età),
A thousand times
goodnight (non so se sia uscito in Italia, l'ho visto su Internet); la
protagonista, Juliette Binoche, è una fotoreporter di guerra, ferita
in un attentato in Afghanistan, mentre fotografava una donna
kamikaze, prima dell'attentato in cui avrebbe perso la vita. Tornata
in Irlanda, dal marito e dalle figlie, che lui educa e segue mentre
lei è via nelle sue pericolose missioni fotografiche, deve fare i
conti con la passione per il proprio lavoro e le esigenze familiari.
Il film scambia i ruoli, proponendo un modello familiare piuttosto
scandinavo, con un uomo che disinvoltamente cucina e porta le figlie
a scuola, mentre la moglie è via. "Fosse stato lui a rischiare la
vita per fotografare la guerra sarebbe stato un eroe, ma è lei che lo
fa e allora si tende a mettere in discussione il suo amore per la
famiglia e il suo istinto materno" commentava Coster Waldau. Ed è
vero, l'ho fatto anch'io, vedendo il film e sentendo una certa
insofferenza per il personaggio di Juliette Binoche. Poi è arrivata
Women of vision, ho scoperto che molte fotografe lavorano con i
propri mariti o sono legate a fotografi, il che semplifica le domande
e le esigenze da casa, ho avuto idea dei sacrifici e della passione.
E non c'è niente di più importante della passione nella vita, così
ho fatto pace con Juliette Binoche. Se potete, guardate
A thousand
times goodnight, prima o dopo aver visto
Women of vision, è un ulteriore tassello per apprezzare il lavoro di queste magnifiche donne.
Women of
vision è a Palazzo Madama, in piazza Castello, fino all'11 gennaio 2015; l'orario di
apertura è da martedì a sabato 10-18 (ultimo ingresso alle 17),
domenica 10-19, lunedì chiuso. Il biglietto costa 8 euro, ridotto 5
euro, gratuito per i minori di 6 anni e i possessori delle tessere
Abbonamento Musei Torino e Torino+Piemonte Card.
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