Era il
1630. Il
duca Vittorio Amedeo I era appena salito sul trono
ed era già impegnato a barcamenarsi tra Francia e Spagna, cercando
un difficile equilibrio che garantisse la sopravvivenza del piccolo e
strategico Ducato sabaudo. Le premesse del nuovo regno erano drammatiche e infelici (Vittorio Amedeo I sarebbe morto nel 1637, probabilmente avvelenato): il 1630 era iniziato con
un'epidemia di peste che devastò Torino, l'Italia
settentrionale e buona parte dell'Europa. Nei libri scolastici di
Storia si parla raramente delle epidemie che funestavano il Vecchio
Continente e che, però, erano in grado di
condizionare il suo
sviluppo economico e sociale.
Le cifre sui morti della peste di
Torino sono discordanti, ma sono d'accordo su un punto: la città
perse
un terzo dei suoi abitanti. Potete immaginare cosa questo
potesse significare in termini sociali ed economici: la peste
non
faceva distinzioni sociali e spazzava via artigiani, contadini,
soldati, aristocratici. Curiosamente, al termine delle epidemie, le
società del passato si trovavano
private di tantissime
professionalità e competenze, delle mani necessarie per la
ripartenza, ma i sopravvissuti
erano più ricchi, avendo ereditato i
beni di chi era morto, e avevano le risorse per ricostruire i tessuti
spezzati dalla devastazione delle epidemie.
La peste del 1630 è
particolarmente celebre perché è stata descritta da
Alessandro
Manzoni ne
I promessi sposi, un libro che si abbandona per antipatia
scolastica e che, invece, riscoperto anni dopo la maturità è
davvero molto bello, nell'affresco che descrive, nell'
humanitas che
diffonde. Potenza delle descrizioni letterarie, l'
incubo di don
Rodrigo, che si risveglia con un
bubbone sotto l'ascella, primo segno
della peste, mi ha accompagnato per anni, più dell'impegno di Lucia
e del Cardinale Borromeo in favore dei malati. L'epidemia
arrivò a
Torino all'inizio dell'anno, portata forse dai contadini in cerca di
un'opportunità in città, dopo che guerra, carestie e difficoltà
avevano devastato le campagne. Le
condizioni igieniche delle città
europee di quei secoli non erano ideali, basti ricordare
la descrizione della Torino di Emanuele Filiberto, perciò era
molto
facile che le malattie si propagassero rapidamente. La medicina,
inoltre, era una
curiosa mescolanza di timide ricerche scientifiche,
superstizioni e magie. Le conoscenze dell'epoca avevano portato a
credere che la peste si propagasse
attraverso l'aria ed erano pochi
ad aver compreso che un'igiene rigorosa era il miglior antidoto
all'espansione della malattia.
I promessi sposi raccontano anche
l'isteria di chi cercava di sopravvivere alla peste,
la superstizione, la facilità con cui
si manipolavano le paure e si inventavano
untori, contro i quali scatenare la rabbia e il dolore. Però, anche allora, c'era chi si faceva vincere dalla paura e chi, eroicamente,
cercava soluzioni. A
Torino si ricorda
Giovanni Francesco Fiocchetto, che fu medico
personale dei Savoia e che sui lunghi mesi della peste scrisse un
trattato,
Della peste e del pestifero contagio, diventato il
vademecum delle successive epidemie. Compreso che astri e untori non
c'entrassero niente e che le condizioni igieniche fossero basilari,
visitò i malati senza sosta,
tuonò contro chi cercava di diffondere
le superstizioni,
raccomandò norme essenziali come l'isolamento dei
contagiati, la sterilizzazione delle monete, la distruzione degli
oggetti dei malati attraverso il fuoco e, soprattutto, l'areazione
continua dei locali,
condicio sine qua non per garantire elementari
condizioni d'igiene.
Durante l'estate, l'epidemia ebbe
il suo
picco più elevato: i malati potevano morire in pochi giorni, poco
dopo l'apparizione dei malefici bubboni; si moriva per le strade, tra
la paura dei passanti. Nel trattato di Fiocchetto ci sono anche
scene
strazianti, come i due bambini intorno ai 2-4 anni, morti abbracciati
sulle scale della chiesa della Trinità, nell'attuale via Garibaldi,
e abbracciati portati via per la sepoltura. Nell'estate del 1630, per
paura della peste, chi aveva potuto era
scappato via. Anche la
Famiglia Ducale aveva lasciato la capitale per salvarsi; a
rappresentare l'autorità erano rimasti il sindaco
Gian Francesco
Bellezia e il
Consiglio Comunale; a portare conforto ai contagiati
erano rimasti
i frati e i preti dei vari Ordini religiosi attivi
nelle strade e nei lazzaretti.
Gli storici considerano Gian Francesco Bellezia e Giovanni Franceco Fiocchetto gli
artefici della sopravvivenza di Torino, per il loro impegno, le loro decisioni, la loro lotta costante contro la peste, le superstizioni, l'irrazionalità. Sono gli eroi del 1630 torinese, li abbiamo dimenticati, nonostante Torino abbia
dedicato loro due strade, curiosamente entrambe
nella zona di Porta Palazzo (via Bellezia punta poi verso sud e il Quadrilatero Romano, via Fiocchetto si muove a nord di corso Regina Margherita ed è famosa in città per ospitare una delle due stazioni degli autobus extraurbani). Dovremmo, di tanto in tanto,
interrogarci sulla toponomastica della nostra città, per scoprire i
suoi eroi e la
Storia che i libri scolastici non riportano.
Poi, così come era arrivata,
la
peste lasciò piano piano la città. Era il 1631 e fu l'ultima grande
epidemia che sconvolse la città. Spossata e devastata, in pochi anni
Torino riprese a crescere, grazie anche all'attrazione che esercitava
sulle campagne. Quali fossero le condizioni economiche, igieniche e
sociali degli abitanti,
è un'altra storia.